Tag: Disagio infantile

  • Il nostro Mediaevo

    Noi abbiamo passato diversi milioni di anni ad affinare la relazione precoce madre-bambino… e appena 15 anni a distruggerla. A partire dalla 2° guerra mondiale, con un’accelerazione verso il 1960, abbiamo cominciato la più grande sperimentazione sociale intrapresa nel mondo occidentale: le madri di bambini in età prescolare e di bebè hanno cominciato a lavorare fuori casa. Ciò non ha modificato solamente la nostra cultura (credi religiosi, struttura familiare, tradizioni, abitudini alimentari, numero di figli in una famiglia, redditi familiari), ma ha trasformato anche la relazione madre-figlio e ha portato ad un modo tutto nuovo di allevare i figli. Per un bambino, il modo di imparare a diventare uomo è stato completamente rivoluzionato. Oggi siamo probabilmente l’unica specie tra i mammiferi nella quale la madre e il suo piccolo non restano insieme, inseparabili, almeno due o tre anni dopo la nascita. Chiedete ai gorilla o alle balene, scuoterebbero la testa dalla meraviglia.

    Niels Peter Rygaard

    Sia detto senza astio né senso di rivalsa… né tanto meno con malcelato maschilismo: semplicemente facciamo parlare i fatti.  Questa Grande Sperimentazione ha dato, col tempo, risultati devastanti. Dobbiamo ammettere che la costruzione di una mente, forse anche di un cervello dotato di equilibrio, empatia, capacità di autocontrollo e di attenzione richiede processi sottili che sfuggono alle osservazioni troppo superficiali e riduzioniste. C’è voluto tempo per vedere i frutti maturi di questa rivoluzione: i bambini di oggi sono figli della prima o addirittura della seconda generazione che ha partecipato a quel grande esperimento sociale di cui parla Rygaard, e con le loro carenti esperienze precoci si affacciano, per di più, su un mondo contraddistinto da vari fattori di rischio, che sintetizzo sommariamente:

    • Troppi e troppo potenti mezzi tecnologici per le relazioni e il tempo libero: web, social network, smartphone, videogame…
    • Sistemi educativi non pensati per i figli della Grande Sperimentazione, dunque inadeguati ai loro particolari bisogni
    • competitività diffusa
    • scomparsa di orizzonti futuri costruttivi
    • paura diffusa dell’altro e della perdita.

    Affrontano questi rischi con la peggior dotazione che si possa immaginare: la Grande Sperimentazione ha lasciato loro forme di attaccamento variamente disturbate, deprivazione da relazioni intime rispecchianti e rinforzanti, una vita troppo precocemente distaccata dall’ambiente caldo e rassicurante della diade madre-bambino. Fuori casa trovano un mondo che non dà loro chiari limiti e orizzonti di azione ma richieste, o addirittura ordini. I bambini attuali sono sottoposti a una ridda continua e pervasiva di richieste alle quali si vorrebbe obbedissero senza residui né proteste, e quando ciò non accade essi vengono rimproverati o puniti. Vivono in un mondo che fondamentalmente li respinge.

    I risultati li vediamo ogni giorno nelle scuole, nelle case, e, purtroppo, talvolta sui giornali. Tra coloro che percepiscono il disastro, ognuno depreca quel che ha di fronte: le incapacità dei genitori, o della scuola, o l’abuso di social media o di videogame, lo scarso rispetto dello studio tradizionale, o magari i problemi con l’ortografia, la grammatica, la storia, il galateo, l’empatia, e tanto altro. E ognuno sostiene con buone ragioni che, se solo si potesse por mano a questo o quel singolo aspetto, il resto si sistemerebbe da sé.

    Amiamo illuderci, evidentemente. Sistemando questo o quello non andrà a posto un bel niente, o al massimo ci andrà per pochi privilegiati. I buchi e gli ammanchi nella costruzione degli individui sono ormai troppi, e troppi i finti supporti patologici e patogeni: videogame, social media, violenza, ritiro, odio e paura. Troppo deboli, finanche deformi gli anticorpi prodotti da cultura, scuola, e perfino dalla buona volontà. Forse ce ne accorgiamo solo ora, ma non da ieri la nostra civiltà in declino ha oltrepassato il punto di non ritorno. Masse di individui malformati dentro, impauriti, carichi di odio e di desideri di rivalsa, afflitti da un vasto senso di perdita e di depauperamento hanno ormai invaso ogni spazio. Desiderosi, semplicemente, di agire la propria distruttività verso vittime qualunque, spesso più deboli. Non faticano a trovare nella società nicchie ideologiche che diano corpo e una sorta di legittimità ai loro bellicosi moti interiori. Qualcuno dice che costoro vanno comunque ascoltati e il principio è condivisibile, non fosse che i nati nella fase matura della più grande sperimentazione sociale del mondo occidentale non vogliono essere ascoltati poiché semplicemente non sanno cosa ciò significhi: fin dalla nascita hanno vissuto in un mondo che non li ha ascoltati ma ha posto loro troppe richieste, per poi bollarli come bambini che “non ascoltano”, che poi si traduce con “non obbediscono”. Quando questa parte in crescita della popolazione occidentale raggiungerà la massa critica si farà “ascoltare” eccome, e non farà prigionieri. Come ha scritto un trentenne suicidatosi qualche giorno fa, “Questa generazione si vendica di un furto, il furto della felicità.” Lui ha ucciso sé stesso ma non illudiamoci: un manipolo di psicopatici intelligenti ha già capito che il mondo occidentale è pieno di giovani ai limiti della psichiatria, senza sé, senza radici, senza prospettive, che hanno imparato cosa sia la vita dagli schermi delle loro PlayStation e Xbox su cui girano giochi inneggianti più o meno apertamente a condotte antisociali e violente, giovani pronti a farsi reclutare per fare stragi di… di gente. Perché non odiano qualcuno, odiano tutto, perfino sé stessi. Anzi, all’odio di sé sono stati educati proprio dal loro mondo.

    Naturalmente tutto questo non riguarda la totalità delle nuove generazioni, ma una quota in aumento, che una zona grigia a gradiente progressivo separa dai “privilegiati” rimasti esclusi dalla Grande Sperimentazione. Dunque questo abisso non soffocherà tutto e tutti, ma resteranno poche élite forse in lotta tra loro: alcuni ambiranno alla conservazione delle caratteristiche umane pre-Sperimentazione, con un anelito di rinascita, altri vorranno invece cogliere fino in fondo l’occasione di spremere il massimo dalle masse di “paria” che si sono create.

    Difficile prevedere gli eventi in un globo caotico e instabile, tuttavia credo sia facile profezia immaginare ancora altre guerre, carestie, e nuove, devastanti povertà. Poi, se i danni all’ambiente non saranno eccessivi e irreversibili, nuove generazioni di umani dovranno tornare a funzionare come la loro specie richiede, torneranno solidali e inclusivi, avranno di nuovo più paura di morire che di legarsi ad altri umani. E ricominceranno ancora una volta. Condannati a rivivere in un eterno dopoguerra.

    Per questo comincio a sentire come una perdita di tempo ogni ricerca di soluzioni parziali e dunque votate al fallimento. Suonano, tutte quante, come le millanterie da bar del “io, se fossi l’allenatore della Nazionale…” Ho, piuttosto, l’impulso a salvare persone. Profughi in ogni senso. Profughi della mente, del sé, dell’umanità. Altri, in altri luoghi, salvano profughi di guerre, disastri e migrazioni. Siamo giunti al “salvare il salvabile” in previsione di una sorta di medioevo già in atto e in espansione.

    Mi sono messo alla ricerca di parole e verbi che esprimessero in modo pulito e conciso queste idee. Ho dovuto scartare tante parole vecchie, abusate, piegate a ogni furberia e trasformismo. Medioevo è un termine frusto, usato in modo traslato per troppi scopi e non sempre nobili. Forse potremmo chiamarlo Mediaevo, l’età dei media. E ancora: conservatori, progressisti, destra, sinistra… sono ormai ciarpame rugginoso. Mi resta il preservare. L’etimo ci porta al nocciolo: custodire intatto, salvare da un male futuro. D’ora in avanti dirò che professionalmente, culturalmente e politicamente sono un preservatore.

     

    Quest’opera di Franco Nanni è stata rilasciata con licenza Creative Commons Attribuzione – Non commerciale – Condividi allo stesso modo 3.0 Italia.

  • Nido e Scuola Infanzia, troppo presto, troppo a lungo, troppo…

    SoffioniLa nostra società si è gradualmente abituata a considerare naturale che bambini di 6, 7, 8 mesi trascorrano 7, 8, fino a 10 ore fuori casa all’interno di una struttura “educativa”, dove la parola educativa merita necessariamente le virgolette in quanto risulta davvero incomprensibile cosa ci possa essere di educativo per un bambino di sette mesi al di fuori del contatto e dello scambio affettivo con i propri familiari. Naturalmente sembra a molti ancora più naturale che una vita del genere venga condotta dei bambini nella fascia 3-6 anni, cioè fino alla fine della scuola dell’infanzia. Della età giusta per il nido, ammesso che esista, abbiamo già parlato qui.

    A costo di apparire impopolare vorrei proporre alcune riflessioni a partire dai bisogni dei bambini, cosa della quale pochi sembrano davvero interessarsi operativamente.

    • Il bambino dalla nascita è predisposto a essere accudito da figure adulte stabili, verso le quali sviluppa attaccamento, un insieme complesso di motivazioni, emozioni e cognizioni, le cui principali manifestazioni sono la ricerca di vicinanza e la protesta per la separazione.
    • Da questo rapporto con adulti (figure di attaccamento) derivano risorse per un adeguato sviluppo affettivo, emotivo e cognitivo, che vanno dal linguaggio al senso di sé, dalla capacità di regolare le proprie emozioni e i propri impulsi all’orientamento spazio-temporale, fino alla capacità di aspettare, di conoscere e di esplorare. È dall’adulto che il bambino apprende (per contatto) i turni del parlare, la reciprocità, i confini io-tu… E infinite altre sfumature essenziali per un armonico sviluppo.
    • Il gioco con i pari età è, almeno fino ai tre anni, un gioco parallelo e affiancato, ma è solo negli anni successivi diviene cooperativo, reciproco, co-gestito, dunque autentica risorsa educativa.
    • È nel libero movimento corporeo che il bambino sviluppa il sè-corpo e le consapevolezze spaziali, quindi in un movimento protetto (ma non controllato o imposto) dall’adulto, al solo fine di evitare pericoli. La disciplina del corpo e del movimento inizia necessariamente dopo, quando possono essere utilizzate dal bambino risorse interne di autocontrollo.

    Se abbiamo ben presente tutto questo, allora diventa naturale fissare alcuni principi di base, quasi una dieta del buon vivere del bambino. E, come tutti sanno, una buona dieta deve essere varia. Tracciamone le caratteristiche ideali:

    • 0~12 mesi (o comunque fino all’inizio della capacità di camminare), a casa e all’aperto con mamma e papà; va bene il contributo non predominante di eventuali figure accessorie (parenti prossimi o baby sitter stabili). Sonno vicino a mamma. Allattamento seno esclusivo a richiesta (0~6) e auto-svezzamento (6~12) con proseguimento del seno e graduale interruzione (per chiarezza, la OMS afferma che non ci sono evidenze di effetti negativi del prendere il seno come complemento anche fino a tre anni di età).
    • 12~24 mesi, valgono le linee precedenti, ma con maggiore flessibilità, maggiore esplorazione di spazi aperti, possibile maggior apporto di figure accessorie preferibilmente stabili. (Diverse ricerche hanno dimostrato che maggiore è il numero e la variabilità di figure di riferimento nella primissima infanzia, maggiore il rischio di problemi comportamentali e emotivi in seguito). In questa fase il nido sarebbe da evitare; se proprio necessario, allora meglio assolutamente part time, cioè solo mattina e con un inserimento molto graduale e lento. Vacanze rigorosamente con i genitori.
    • 24~36 mesi, o comunque entro inizio scuola dell’infanzia: sostanzialmente restano valide le linee guida del periodo precedente, ma con maggiore apertura e tempi più tranquilli di permanenza con persone note che non siano i genitori, oppure il Nido, ma sempre comunque part time! Questa può essere la fase di consolidamento del rapporto con i nonni, se presenti. Meglio però, sotto i tre anni, evitare di far fare ai bambini vacanze lunghe (oltre 5/7 giorni) soli con i nonni. I bimbi più tranquilli e sereni possono, senza fretta, iniziare a dormire da soli.
    • Dai 3 ai 6 anni: ovviamente ha inizio per tutti la scuola dell’infanzia, ma altamente consigliabile la frequenza 8~13 approssimativamente, necessaria il primo anno. Se non è possibile sempre, va comunque limitata allo stretto necessario. Dormire da soli, la notte a casa, è un buon traguardo per questa età, ma alcuni bimbi sono ancora bisognosi di contatto; non facciamogli fretta.
    • Durante la fase 3~6 anni la “dieta” ideale comprende:
      • Mattino all’asilo
      • Pomeriggio a casa, sonnellino, e relazione con un adulto, esclusiva (1:1) o con fratelli/sorelle, massimo cuginetti, in modo che la relazione con l’adulto sia predominante rispetto a quella con i bimbi. In questo tempo è importante un buon equilibrio tra libertà motoria e esplorativa e limiti chiari e fermi dati al comportamento dei bambini.
      • Tardo pomeriggio (se non prima) ricongiungimento coi genitori fino a sera/notte.

    Per chiarezza: queste linee guida non sono state stese per colpevolizzare o accusare nessuno. Non siamo nati ieri e sappiamo tutti quanto sia difficile stare in mezzo tra le esigenze dei bambini e un mondo del lavoro sempre più rapace, intollerante, ladro di tempo e risorse emotive.

    Al contrario, queste linee guida sono state stese per aiutare chi può a crescere al meglio i propri figli, e per ricordare a tutti di non provare stupore quando al nido o all’asilo osserviamo bambini con significative mancanze nelle capacità di autoregolazione emotiva, nella turnazione del dialogo, nella relazione con l’adulto e con i pari età. Non sono i bambini a sbagliare ma semmai le circostanze in cui sono cresciuti. Dovrebbero essere un monito a riformare e riformulare la vita nella scuola dell’infanzia al fine di aiutare questi bambini squilibrati a ritrovare maggiori risorse auto regolative interne. Per farlo, non hanno bisogno di più disciplina ma di più intense relazioni costruttive con adulti significativi. Dunque per prima cosa, soltanto per cominciare e nulla più, smettiamola con sezioni da 25 bambini con una sola maestra.

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  • ADHD: ma è propriamente una “malattia”?

    Vorrei ragionare da “addetto ai lavori” e potermi sentire estraneo sia al furore “antipsichiatrico”, che al furore “anti-antipsichiatrico” o iper-medicalizzante.
    Ne faccio proprio una questione “scientifica”: qualunque manuale di psicofarmacologia chiarisce da subito che i mentre i meccanismi di azione di gran parte dei farmaci che usiamo per altre patologie sono per lo più esattamente noti, quelli degli psicofarmaci non sono noti, se non per via del constatarne gli effetti. Anche i “bugiardini” di notissimi farmaci riprendono lo stesso concetto,  riporto ad esempio quello di un celebre e diffusissimo ansiolitico (grassetti miei mirati a evidenziare la prudenza e le espressioni di incertezza):

    «L’esatto meccanismo d’azione delle benzodiazepine non è stato ancora chiarito; comunque, sembra che le benzodiazepine agiscano attraverso vari meccanismi. Presumibilmente le benzodiazepine esercitano i loro effetti attraverso un legame con specifici recettori a diversi siti entro il sistema nervoso centrale, o potenziando gli effetti di inibizione sinaptica o presinaptica, mediata dall’acido g-aminobutirrico, oppure influenzando direttamente i meccanismi che generano il potenziale d’azione.»

    Ho scelto questo testo per usarlo come esempio del fatto che in ambito psicofarmacologico si lavora in condizioni diverse da quelle che contraddistiguono altre branche della medicina, Dunque parlare di una molecola come “terapia” di una patologia è una sintesi troppo rapida e convenzionale che non rispecchia nemmeno il pensiero di chi queste cose le studia e ci fa ricerca, dunque i dubbi non sono frutto di qualche ossessione settaria ma di emeriti scienziati, e che uno dei maggiori ricercatori viventi, A. Damasio, scrive qualcosa che suona come “pensare di combattere la depressione con molecole come gli SSRI è come sparare alle formiche col cannone”.
    Altro problema: l’esistenza delle patologie. Alcuni citano il DSM-IV come “il demonio”, altri come il vangelo, ma non è né l’uno né l’altro. Però chiunque abbia studiato psicologia o psichiatria sa che l’approccio che è “passato” nelle varie versioni del DSM che si sono succedute, è partito da un tentativo (certamente prematuro e fallito) di approccio eziologico, ossia l’approccio normale per le malattie del corpo: definisco una patologia X in base al fatto che è causata dal virus Y o dal batterio Z, o dal meccanismo degenerativo del tessuto W. Dopo, e soltanto dopo passo a enumerarne i sintomi ad uso della diagnosi. Ovviamente nel caso della mente non è stato possibile formulare un approccio del genere praticamente per nessuna patologia, poiché le ipotesi eziologiche dei primi DSM, di matrice psicoanalitica, non hanno retto alla prova del tempo e delle verifiche. Il DSM attuale ha un approccio sindromico, ovvero parte dalla enumerazione dei sintomi raggruppandoli in delle sindromi, e le sindromi non sono “ancora” delle malattie. Del resto l’AIDS nasceva come sindrome, prima di identificarne il virus. Dunque il DSM-IV non è né demonio né vangelo, ma semplicemente quel che è: il tentativo di creare su basi statistiche e linguistiche una base diagnostica a partire dalla rinuncia all’approccio eziologico. Dunque non è che certuni sono pazzi perché dicono che “non esiste l’ADHD”, intanto perché essi dichiarano (almeno nelle formulazioni più rigorose) che non esiste una entità nosologica autonoma e univocamente definita come ADHD, ma non dicono altro che qualunque patologia definita con un approccio sindromico “non esiste” nel senso in cui invece esiste l’AIDS. Anche l’AIDS prima di identificarne il fattore eziologico “non esisteva” come entità nosologica: ciò non significava che “non esistessero” i malati o i sintomi, ma non si sapeva come classificarli, come curarli, né per quali cause. Che io sappia, nessuno ha ancora pubblicato dati credibili e condivisi sulle basi eziologiche che accomunerebbero i quadri sindromici dell’ADHD. Per la medicina “normale” questo è semplicemente il processo ovvio per ogni nuova patologia, mentre per la psicopatologia finora ci si è fermati ai quadri sindromici, e nessuno ancora osa affermare basi eziologiche certe per nessuna psicopatologia. Dunque è profondamente stupido sostenere che “invece” l’ADHD esiste perché è scritta nel DSM-IV. Tant’è vero che esiste anche un diverso sistema diagnostico, l’ICD-10, promosso dalla OMS, che cataloga diversamente molte patologie. Se si parlasse di patologie nel senso medico non potrebbero esistere due sistemi diagnostici!
    Infine: perché prendersela tanto per i bambini? Se si pensa che il sistema nervoso continua il suo sviluppo e la sua costruzione (ad esempio il processo di mielinizzazione) fino almeno ai 14 anni, e se si pensa che le molecole di molti psicofarmaci (in particolare gli antidepressivi) agiscono anche, o talvolta soprattutto sull’espressione genica all’interno dei neuroni, vorrei sapere cosa c’è di antiscientifico a proclamare la necessità di evitarne al massimo la somministrazione. Tanto per chiarirci, ho molte meno remore negli adulti. Sempre A. Damasio, comunque, ammonisce sul fatto che noi non sappiamo a quali conseguenze andiamo incontro con una assunzione di psico-molecole che sta divenendo di massa. Dunque, che lo sostengano ideologi settari o meno, io trovo che somministrare a bambini di sette, otto anni farmaci che a detta di chi ne sostiene l’uso, “non curano il disturbo, poiché migliorano solo temporaneamente i sintomi” a me pare un abuso bello e buono e non saprei come diversamente chiamarlo. Che fare allora con questi bambini? Perché sembra che poi alla fine mentre si sta qui a discutere ADHD sì o no, a scuola e a casa si sta in trincea. Questo è semplicemente un pezzo del mio normale lavoro. Dietro ogni bambino irrequieto c’è una storia e comprendendola è possibile gestirla al meglio e contenerla. Questo è il lavoro di tanti come me, un lavoro paziente e silenzioso.
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  • La nostra posizione sull’ADHD

    Come è noto, la nostra Associazione ha aderito alla campagna “Giù le mani dai bambini” assumendo quindi una chiara posizione rispetto al tema delle problematiche di irrequietezza e disattenzione nei bambini. Ci pare opportuno aggiungere queste righe per precisare meglio quanto ci sta a cuore su questo argomento. Intorno alla questione “ADHD” si stanno giocando accese lotte tra fautori e detrattori dell’uso di farmaci come il metilfenidato, che rischiano però di mettere in ombra una questione essenziale: mentre noi discutiamo dottamente, gli uni spergiurando che l’ADHD “esiste” e che il Ritalin fa bene, gli altri sbracciandosi a sostenere che l’ADHD “non esiste” e che il Ritalin fa male, esistono certamente bambini di nome Giovanni, Carlo, Lorenzo o Lucia, vivi, veri, che tra i banchi di scuola agiscono le loro difficoltà emotive e relazionali, la loro ansia, i loro bisogni, e rischiamo tutti di essere troppo distratti per curarci di loro personalmente, troppo occupati a sostenere tesi contrarie che, al loro estremo, si avvicinano molto alla masturbazione mentale, qualcosa come una discussione sul sesso degli angeli. Sembra quasi che il clamore di queste diatribe testimoni che in primo luogo si sia a caccia di affari (case farmaceutiche) o di visibilità (tutti quanti).
    Vorremmo sottolineare invece qui il lavoro silenzioso di tanti: psicologi (scolastici, di ASL, privati, ecc.), formatori, insegnanti, persone che senza alcuna caccia alla visibilità, né alcun bisogno di fare affari sulla pelle dei bambini, pazientemente ogni giorno lavorano a contatto con bimbi iperattivi e/o disattenti guardandoli in faccia, chiamandoli per nome, aiutandoli a trovare modi per autoregolarsi, e aiutando il loro ambiente a modificarsi per favorire il loro benessere.
    Ci sono invece realtà in cerca di visibilità, alcune con nostalgie rivoluzionarie, altre con appartenenze vicine alla cosiddetta Chiesa di Scientology, che agganciano a questa sacrosanta battaglia temi di antipsichiatria, di “lotta alla psichiatrizzazione”, con toni talvolta allarmistici, talaltra vittimistici che non ci appartengono nel modo più assoluto. Alcuni arrivano ad affermare che il disagio, il dolore mentale, l’angoscia, la perdita di contatto con la realtà siano solo il frutto della pratica psichiatrica, e che non esisterebbero senza di essa. In pratica, si nega completamente una larga fetta di esperienza umana, bollandola come complotto delle multinazionali del farmaco.
    Senza mezzi termini, consideriamo queste tesi delle fesserie pericolose, che fingendo di basarsi sulle tesi di psichiatri illuminati come Basaglia, finiscono invece col distruggerne lo spirito più profondo, che non nega il dolore e il disordine mentale, ma studia metodi umani, non violenti e integrativi per lenirlo, senza cercare facili e sommarie scorciatoie.
    Per concludere: anche il bambino iperattivo e/o disattento è portatore, a diversi livelli, di un disagio e un dolore mentale, in parte causa del suo disturbo, in parte effetto di una cattiva integrazione con l’ambiente e con i pari, e consideriamo nostro compito prenderci cura di lui. Lo slogan “non etichettare tuo figlio, ascoltalo” ci piace molto, a patto che non significhi “se tuo figlio soffre, fai finta di niente, è solo una invenzione delle multinazionali del farmaco”.

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  • Iperattività e Deficit di Attenzione

    “Non sta mai fermo”, “le maestre non riescono a tenerlo”, “perde tutto e non si concentra su niente”, “si arrampica dappertutto”, ecco alcune delle affermazioni che evocano in molti genitori una sigla sempre più pronunciata: ADHD, ovvero Disturbo da deficit di attenzione e iperattività. Una sigla che dovrebbe indicare una specifica patologia, anche se il mondo scientifico non ha trovato alcun criterio definitivo che permetta di affermare che l’ADHD è una malattia, e non piuttosto un insieme di sintomi non specifici. In questo articolo si prova quindi a produrre affermazioni sensate, utili e concrete a partire da una questione controversa che, oltre ai nobili scopi della tutela del bambino, mette in gioco la serenità e le scelte di tante famiglie, ma anche enormi interessi economici. Per cominciare, proviamo a entrare nei panni dei tanti genitori posti di fronte al loro bambino “troppo” vivace, disattento e irrequieto.

    La prima segnalazione

    Un bimbo straordinariamente vivace non passa inosservato, ma di solito la famiglia tende ad accettare questa caratteristica come un dato di personalità, a meno che non esploda all’improvviso in un soggetto che in precedenza era tranquillo. È piuttosto dalla scuola (materna o più spesso elementare) che di solito arrivano i primi messaggi sul bambino che “non si riesce a tenere”. Talvolta i genitori concordano con queste osservazioni ma non è raro che ne siano sorpresi, poiché il loro bambino a casa è tranquillo, o almeno appare tale; queste discrepanze tra scuola e abitazione sono del tutto normali, poiché questi comportamenti variano sensibilmente in base all’ambiente e allo stato d’animo in cui il bimbo si trova. Un esempio semplificato per far capire al lettore: l’irrequietezza e la disattenzione possono essere qualcosa di paragonabile alla febbre, ovvero un sintomo non specifico, del quale non possiamo dire “non esiste”, ma nemmeno possiamo considerarlo come una malattia a sé stante; di fronte a un bimbo febbricitante qualsiasi pediatra si metterebbe alla ricerca della causa sulla quale eventualmente intervenire, e l’oggetto della sua diagnosi sarebbe appunto la causa della febbre e non la febbre in sé.

    Il rischio di etichettare

    Vediamo ora meglio perché sia così importante distinguere il sintomo dalle sue cause. Alcune organizzazioni suggeriscono liste di comportamenti (di norma diciotto) che dovrebbero indurre il sospetto di ADHD; in altri Paesi e anche da parte di alcuni clinici italiani si dà per scontato che questi sintomi abbiano una causa biologica che risiede nel cervello del bambino; è noto però che esistono decine di diverse possibili condizioni psicologiche e ambientali che possono causare comportamenti del tutto simili ai sintomi della cosiddetta ADHD. Ecco perché etichettare come “malattia a origine biologica” quello che è un semplice insieme di sintomi ci impedisce di cercare tutte le possibili cause, e non solo quelle biologiche (oggi peraltro molto discusse), e ci impedisce quindi di cercare le soluzioni più adeguate; dunque la validità diagnostica di questi criteri è per lo meno controversa, ma ne riportiamo qualche esempio per capire come siano formulati:

    • il bambino incontra difficoltà a concentrare l’attenzione sui dettagli o compie errori di negligenza
      è riluttante ad affrontare impegni che richiedono uno sforzo mentale continuato (come i compiti di scuola)
    • si lascia distrarre facilmente da stimoli esterni
    • da seduto giocherella con le mani o con i piedi o non sta fermo o si dimena
    • corre e si arrampica dappertutto, sembra “motorizzato”.

    Come si vede si tratta di fenomeni semplici e molto comuni, se presi uno per uno, al punto che a uno sguardo superficiale potrebbero far credere affetti da ADHD gran parte dei bambini molto vivaci, ma i genitori si rassicurino: dei complessivi diciotto segnali dovrebbero esserne presenti almeno dodici in modo continuativo e persistente prima di stabilire anche solo il sospetto di ADHD. E anche qualora si raggiungesse questo limite, sono gli stessi promotori di questi test a precisare che “la diagnosi, soprattutto nei casi più complessi e dubbiosi, deve essere consolidata con una diagnostica più approfondita rappresentata dai test di concentrazione, di intelligenza e di personalità”. C’è anche da chiedersi che cosa esattamente sia da diagnosticare, dal momento che finora si parla di sintomi. Dunque la domanda “mio figlio ha l’ADHD?” è una domanda mal posta e fuorviante. Se si potesse riassumere il senso di queste righe in un solo concetto: gli stati di estrema irrequietezza e disattenzione sono un problema reale che va riconosciuto e risolto, ma lo scopo non si raggiunge appiccicandoci sopra una etichetta di “patologia”.

    Il rischio di sottovalutare

    Oltre al rischio di etichette patologiche c’è quello opposto di banalizzare e sottovalutare le difficoltà del bambino dicendo: “in fondo è soltanto vivace”, “è il suo carattere”, “ha tanta energia” e così via. Occorre invece prima di tutto osservare il bambino e domandarsi: la sua è (a) vivace, autentica gioia di muoversi, o (b) irrequietezza inarrestabile e incapace di rispettare tutti i limiti e le richieste dell’ambiente, anche le più blande? È sempre stato un bimbo (a) di grande attività motoria, o (b) è divenuto incontenibile in età successive e solo in specifici contesti, per lo più quello scolastico? Cosa esprime col suo comportamento, (a) una fondamentale gioia di vivere, o (b) una agitazione perpetua senza altro scopo se non quello di tenere lontana l’ansia o l’angoscia? Come utilizza (se li usa) i videogiochi? Diventa (a) capace di stare seduto anche intere ore alla console (Playstation e simili) senza stancarsi e senza perdere la concentrazione, o (b) non ci riesce? Una consultazione con un clinico è sempre una scelta opportuna, ma più le vostre risposte sono spostate verso il polo (b), più tale scelta è caldamente raccomandata.

    Quali sono i possibili rimedi? Servono i farmaci?

    Fin qui abbiamo raccolto le informazioni fondamentali per comprendere la specifica condizione di quel particolare bambino, che non vorremmo mai definire “sospetto di avere l’ADHD”. Occorre poi che la famiglia riporti tutto ciò al clinico. Alcuni medici prescrivono farmaci a base di metilfenidato, che era inserito fino a poco tempo fa nella tabella I degli stupefacenti insieme a cocaina, anfetamine, oppiacei, barbiturici e LSD, mentre ora è stato declassato nella tabella IV degli stupefacenti, per permetterne la somministrazione ai bambini. Questo sarebbe già di per sé un valido motivo per contrastarne l’uso, ma nulla più delle stesse parole dell’AIFA, una associazione non certo contraria all’uso del metilfenidato, può convincercene (grassetti nostri): “questi farmaci non curano il disturbo, poiché migliorano solo temporaneamente i sintomi (…). Da soli i farmaci non possono aiutare a far sentire i pazienti interiormente meglio (…) o a fornire quelle specifiche competenze necessarie per affrontare i problemi, ad insegnare delle abilità sociali o aumentare la motivazione. Per raggiungere questi risultati, e che durino nel tempo, sono necessari altri generi di trattamenti e forme di sostegno (…)”. Fondamentale, quindi, comprendere la globalità della situazione e consigliare la famiglia per il meglio, caso per caso; esaminare abitudini, stili di vita, ambiente scolastico, storia cognitiva, emotiva e relazionale, e apportarvi le necessarie modifiche; valutare eventuali richieste cognitive e comportamentali eccessive o troppo precoci che vanno rimodulate. Infine vengono predisposti interventi educativi e training per aiutare il bambino a gestire meglio gli impulsi e l’attenzione. Anche la scuola dovrebbe ricevere consigli per predisporre le condizioni ideali per bambini con questo genere di difficoltà.

    È possibile prevenire?

    Per un fenomeno così complesso e articolato non possiamo parlare di “prevenzione”, una prassi che riguarda patologie specifiche con origini note. Rispetto al nostro tema elenchiamo solo alcuni semplici consigli, che permettono di predisporre buone abitudini e condizioni di vita, valide anche per il fine più generale di una buona crescita:

    • Proporre e incentivare attività libere all’aria aperta (a tutte le età) meglio se in compagnia di coetanei.
    • Limitare molto la quantità di televisione specialmente nei primi anni di vita, e vigilare sulla qualità, in particolare evitando generi con veloci sequenze di immagini.
    • Evitare di riempire la vita dei bimbi con troppe attività extrascolastiche, specie se sedentarie.
    • Controllare l’abuso di videogiochi.

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  • La scuola, crocevia di molte crisi

    Idee per non perdere l’orientamento e mantenere viva la speranza

    (Saggio di presentazione del volume “I maestri del dolore” di F. Nanni – ed. Pendragon)

    La scuola non è soltanto un luogo di lavoro e di educazione: è anche un collettore, un setaccio dove si raccolgono sensi e significati che permeano l’intera vita di una società. Se è vero che la nostra civiltà sta vivendo un periodo di crisi non solo economica ma anche culturale, o addirittura di sistema, è ovvio che uno dei luoghi dai quali percepire ciò è proprio la scuola, che diventa così il crocevia di molte diverse dimensioni di crisi, dalle questioni meramente materiali alle carenze di personale, dai macrofenomeni dell’economia mondiale fino alle scelte di politica dell’istruzione, per arrivare ai vissuti, alle vicende di tante famiglie e dei loro bambini, per finire ai tanti messaggi che tutti, ma in particolare i più piccoli ricevono dai media e traducono in pensieri e azioni che proprio nella scuola prendono forma.

    In questo panorama i genitori vivono, talvolta producono, e spesso insieme subiscono le difficoltà di crescita dei loro figli; le insegnanti, nel loro sforzo quotidiano, alternano speranze e sospetti nei confronti di ricette di pronta utilità: ne sentono un disperato bisogno, ma ne avvertono anche la semplicistica promessa che in breve si fa premessa di delusioni. “Non ci sono ricette” è diventata una frase alla moda, ma mi domando se sia poi più onesta, più vera, nobile e utile di una umile ricerca di idee e prassi per mantenere la speranza, forse anche per sentirsi vivi, per sfuggire a una crescente oscurità nella quale si perde l’orientamento necessario a dirigere l’azione e le energie. Vivere in un periodo critico come questo comporta conseguenze in larga parte inevitabili: perdite, rinunce, riduzione delle prospettive, delle aspettative e della progettualità individuale e istituzionale. Vi sono però anche effetti collaterali che dovrebbero essere limitati e combattuti: un generale senso di perdita di controllo sugli eventi e sulle persone, la sensazione pervasiva che le problematiche portate dagli utenti/bambini/ragazzi invadano ogni spazio soffocando le risorse esistenti, fino a renderli quasi dei persecutori/carnefici dotati di menti opache, insondabili e tossiche. Questa condizione, che potremmo definire di oscuramento mentale, o addirittura di cecità, è un effetto che deve essere limitato perché agisce da potente inquinante verso un clima già intrinsecamente compromesso, accelerando la perdita di speranza e di capacità di orientare le azioni di ciascuno. Già, ma cosa si dovrebbe fare, quali “ricette” adottare in concreto per contenere questi effetti? Non credo sia né giusto né onesto sfuggire a questa richiesta con facili frasi alla moda; giungere a una risposta richiede però un percorso concettuale, e per cominciare immaginiamo alcune situazioni:

    1. È il giorno di Natale, e all’improvviso il termosifone del soggiorno inizia a perdere acqua bollente e grigiastra che si sparge rapidamente sul parquet.
    2. Mamma e papà sono in coda alla cassa del supermercato e il loro bambino, con il volto paonazzo, piange, si dimena e grida parole rese ormai incomprensibili dalla foga disperata che lo agita da quasi mezz’ora.
    3. Sono le dieci del mattino e la maestra è già esasperata per l’incontenibile disturbo di un bambino che sembra non riuscire mai a essere impegnato nell’attività del momento, e che trascina alla distrazione molti compagni.

    In tutti e tre i casi è facile immaginare che due domande premano sui loro protagonisti adulti: “che cosa faccio?” è probabilmente la prima, seguita da “perché fa così?”, riferendosi rispettivamente al termosifone e al bambino. Entrambe le domande sembrano alimentarsi di un unico, pressante bisogno: farlo smettere.

    Nella situazione (1) sia il bisogno che le domande sono adeguate per la ricerca di soluzioni, mentre lo sono soltanto in apparenza nelle altre due, rispetto alle quali esse applicano una logica fallace. Nel primo caso esiste infatti un insieme finito di azioni materiali da eseguire per limitare i danni e fermare la perdita, e infine per rimettere in funzione l’oggetto. È del tutto logico per ogni idraulico pensare che la riparazione definitiva richieda necessariamente di comprendere “perché fa così”. È molto raro sentire qualcuno dire “le ho provate tutte, ma il radiatore continua a perdere come prima”, mentre è molto comune che “le ho provate tutte” sia l’inizio di tante lamentele di genitori e docenti. “Le ho provate tutte” è in un certo senso il sintomo dell’applicazione di una serie di logiche fallaci: infatti nelle situazioni simili a (2) e (3) non esiste un insieme finito di azioni materiali da eseguire in nome del bisogno pressante di “farlo smettere”, bisogno che non può essere impunemente trasferito da un prodotto tecnologico a un essere umano. La logica del “perché fa così?” non è di per sé altrettanto fallace, ma lo diventa se non tiene conto, ancora una volta, di quanto sia diverso avere a che fare con oggetti o con esseri umani. Una differenza che, nell’era della tecnica, sfugge ai più. Tendiamo troppo spesso a uniformare il vivente, e soprattutto il pensante e il senziente, al tecnologico. Sembra ovvio, e non lo è, collegare il “perché fa così?” a un’altra domanda, “dov’è localizzato il guasto?”, cosa che poi implica automaticamente mettersene alla ricerca. È una fallacia meccanicistica, quindi, che ci porta a eludere la domanda principale da porsi di fronte a esseri umani: “che cosa ha in mente?” Quando ci relazioniamo a un nostro simile, infatti, non possiamo proprio fare a meno di interpretarne le azioni come il frutto di pensieri, sentimenti e bisogni, ovvero il frutto di contenuti e processi mentali. Quando cessiamo di farlo, l’altro (alunno, genitore, collega…) diventa un oggetto, strumento o ostacolo a seconda, oppure, peggio, viene vissuto come un persecutore e un nemico. In tutti i casi cadiamo nella fallacia meccanicistica, che rende infruttuosi i nostri tentativi di “riparazione” e ci costringe a vissuti di impotenza molto debilitanti. Questa capacità di vedere l’altro come risultato di stati mentali viene denominata in vari modi, ma quello che preferisco è mentalizzazione, il termine scelto dai ricercatori dell’Anna Freud Centre di Londra. La mentalizzazione è un concetto antichissimo e insieme modernissimo: segna l’inizio dell’umanità così come la conosciamo, ma è anche uno dei fronti più avanzati della ricerca psicologica degli ultimi anni.

    Qual è il rapporto tra le considerazioni iniziali a proposito della crisi e il concetto di mentalizzazione? In sintesi: le situazioni stressanti o logoranti, le condizioni potenzialmente depressive e il burnout sono tutti fattori che portano più o meno direttamente a un blocco o a una forte riduzione della capacità di mentalizzare, ovvero a una condizione di cecità mentale. La cecità mentale, dunque, è una sorta di effetto collaterale della crisi, che nello stesso tempo finisce con l’aggravarne le conseguenze sulle persone e sulla qualità complessiva delle istituzioni educative.

    Il libro che ho scritto non parla della mentalizzazione e non è un manuale teorico. È piuttosto uno strumento destinato a tutti coloro che operano a contatto con gli alunni e i loro genitori, per aiutarli a articolare processi di mentalizzazione attraverso narrazioni, principalmente, col supporto di alcune riflessioni.

    È assai probabile che la capacità di mentalizzare abbia promosso il successo evolutivo umano in tempi molto lontani, e sia stata quindi integrata nella nostra eredità, se non propriamente genetica, almeno come funzione alla portata del cervello umano. Sembra che in ogni ambito relazionale essa produca effetti benefici, ma oggi in questa abilità possiamo cercare anche e soprattutto un antidoto ai veleni della crisi culturale, economica e politica che affligge non solo la scuola ma l’intero nostro Paese.
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  • Le verità scomode sul disagio infantile

    L’esperienza accumulata in questi anni di attività di sostegno alla genitorialità ha evidenziato diversi aspetti della vita dei bambini che tendono a ricorrere spesso, o addirittura nella quasi totalità dei casi tra i dati anamnestici. Essi vengono rilevati attraverso una intervista ai genitori che ricostruisce i principali aspetti del loro percorso nel crescere i figli. Intervenire su questi aspetti sarebbe oggi forse l’unica pratica di prevenzione dotata di un fondamento razionale e empirico vasto e documentato. Vale la pena allora rivederne rapidamente una sintesi, elencando le problematiche riferite dai genitori stessi:

    • È quasi una costante la presenza nei figli e/o nei genitori di piccole o grandi incrinature nelle vicende dell’attaccamento; spesso, ma non sempre, questi aspetti vengono riferiti senza la minima consapevolezza che si tratti di condizioni effettivamente critiche.
    • Il test sull’attaccamento somministrato ai figli e talvolta ai genitori conferma da parte sua la presenza di stili di attaccamento non sicuri in una larghissima maggioranza di casi.
    • Tra le condizioni meno frequenti che possono anche contribuire ad attaccamenti disturbati, ma che hanno un loro statuto autonomo, una delle più ricorrenti è quella delle difficoltà sanitarie (anche del tutto superate) collocate nel concepimento, o in gravidanza, o in area perinatale/postnatale.
    • Non sono rare complicanze dovute a condizioni depressive di madri e padri, in atto o pregresse; tra queste ultime ha un certo ruolo la depressione post partum; importante aggiungere che non sempre essa è stata riconosciuta come tale e trattata in qualche modo.
    • Non sono rare le madri che riportano difficoltà nell’allattamento al seno; bambini “pigri” che non si attaccano, o che succhiano poco, il latte che “non c’era” o “era poco nutriente”. In questo scenario è del tutto ovvio che molto spesso faccia la sua comparsa la cosiddetta aggiunta, ovvero un biberon di latte artificiale che dovrebbe integrare una alimentazione che si ritiene povera.
    • In una schiacciante maggioranza di casi viene riportato che il bambino “ha sofferto di coliche gassose”. Talvolta però il racconto dettagliato riporta soprattutto lunghe crisi di pianto inconsolabile, dovute presumibilmente alle coliche; potrebbe in questi casi trattarsi di un bambino iperresponsivo (che reagisce cioè agli stimoli corporei e ambientali in modo più intenso della media) ad alto bisogno e difficilmente consolabile, unito, magari, a una difficoltà del genitore a contenerlo in modi appropriati.
    • Le difficoltà di sonno in età molto precoce sono assai frequenti ma non ubique.
    • Ai due gruppi precedenti fa da contraltare una minoranza non esigua di bambini che da neonati sono stati iporesponsivi (che reagiscono cioè agli stimoli corporei e ambientali in modo meno intenso della media), molto ritmici e regolari nell’alimentazione e nel sonno, che quindi nei primissimi anni di vita sono stati particolarmente “facili” da crescere, ma facili anche da dimenticare, riducendo via via le interazioni, i giochi sociali e le cure accuditive che il bambino non sembrava chiedere, essendo uno di quei bimbi che “par quasi di non averlo” oppure “dove lo metti sta”.
    • I luoghi del sonno, come già esposto, tendono agli estremi: gli agitati finiscono col diventare dei cosleeper tardivi e ostinati, gli iporesponsivi e ritmici vengono precocissimamente abituati al sonno solitario in modo (spesso solo apparentemente) indolore.

    Ho voluto disporre in forma di elenco questa serie di problematiche che ricorrono nel passato di tanti bambini giunti al servizio, perché così facendo sembra già impostata una sorta di “lista della spesa” di possibili iniziative di prevenzione del disagio psichico in tutte le età. Tale passaggio è possibile, lecito e razionale in quanto i legami tra gli aspetti elencati e varie forme di disturbi della condotta e di psicopatologia sono ampiamente documentati sul piano statistico.

    Un altro aspetto che testimonia bene la nuova alleanza tra scienza e tradizione riguarda il modo di tenere fisicamente il neonato. Mentre dal moderno in avanti si è spesso teorizzato qualcosa come «non prenderlo in braccio se no lo vizi», i neonati dei nostri progenitori passavano gran parte del tempo addosso alla loro madre, che nel frattempo si dedicava ad altre diverse occupazioni; lo stesso fanno tuttora le donne in molte culture tradizionali di tutto il mondo1. Gli autori di un documentato e ampio studio2 sostengono che i bambini occidentali ricevono invece in prevalenza un accudimento distante sia di giorno che di notte, il che limita le stimolazioni sensoriali, i contatti pelle-pelle e sguardo-sguardo, e anche le vocalizzazioni e gli altri giochi sociali. Il contatto fisico per l’infante è dunque un nutrimento fondamentale sia sul piano psicologico che su quello neurologico3. I bambini che vengono portati addosso da un adulto per almeno tre ore al giorno, piangono tra il 40% e il 50% in meno della media4.

    Ci è parsa quindi naturale l’aspirazione a una completa rifondazione dei nostri concetti di prevenzione del disagio psichico infantile, adolescenziale e adulto. Non è questa la sede idonea per una disamina completa di questa ipotesi, ma, come affermato alla fine del paragrafo precedente, è quanto meno possibile tradurre quanto emerso dalle nostre casistiche in obiettivi possibili per una prevenzione efficace.

    Il primo punto fondamentale non può che consistere nel dare la massima, concreta diffusione e applicazione alle più recenti linee guida fornite dalla Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) e dalla Accademia Americana di Pediatria (AAP) riguardo alle cure neonatali e infantili.


    1 Le fonti sono numerosissime e non possono essere riportate estesamente qui. Per una bibliografia esaustiva si veda Nanni (2006); per una panoramica si veda Eibl-Eibesfeldt (1993).

    2 Cfr. Douglas (2005).

    3 Cfr. ancora Douglas (2005) e anche gli studi citati nella nota successiva.

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    4 Hunziker (1986). Con alcune discordanze e alcune difficoltà di metodo e di comparazione, questa tesi risulta sostanzialmente confermata anche in uno studio più recente (St James-Roberts 2006)

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