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  • La scuola, crocevia di molte crisi

    Idee per non perdere l’orientamento e mantenere viva la speranza

    (Saggio di presentazione del volume “I maestri del dolore” di F. Nanni – ed. Pendragon)

    La scuola non è soltanto un luogo di lavoro e di educazione: è anche un collettore, un setaccio dove si raccolgono sensi e significati che permeano l’intera vita di una società. Se è vero che la nostra civiltà sta vivendo un periodo di crisi non solo economica ma anche culturale, o addirittura di sistema, è ovvio che uno dei luoghi dai quali percepire ciò è proprio la scuola, che diventa così il crocevia di molte diverse dimensioni di crisi, dalle questioni meramente materiali alle carenze di personale, dai macrofenomeni dell’economia mondiale fino alle scelte di politica dell’istruzione, per arrivare ai vissuti, alle vicende di tante famiglie e dei loro bambini, per finire ai tanti messaggi che tutti, ma in particolare i più piccoli ricevono dai media e traducono in pensieri e azioni che proprio nella scuola prendono forma.

    In questo panorama i genitori vivono, talvolta producono, e spesso insieme subiscono le difficoltà di crescita dei loro figli; le insegnanti, nel loro sforzo quotidiano, alternano speranze e sospetti nei confronti di ricette di pronta utilità: ne sentono un disperato bisogno, ma ne avvertono anche la semplicistica promessa che in breve si fa premessa di delusioni. “Non ci sono ricette” è diventata una frase alla moda, ma mi domando se sia poi più onesta, più vera, nobile e utile di una umile ricerca di idee e prassi per mantenere la speranza, forse anche per sentirsi vivi, per sfuggire a una crescente oscurità nella quale si perde l’orientamento necessario a dirigere l’azione e le energie. Vivere in un periodo critico come questo comporta conseguenze in larga parte inevitabili: perdite, rinunce, riduzione delle prospettive, delle aspettative e della progettualità individuale e istituzionale. Vi sono però anche effetti collaterali che dovrebbero essere limitati e combattuti: un generale senso di perdita di controllo sugli eventi e sulle persone, la sensazione pervasiva che le problematiche portate dagli utenti/bambini/ragazzi invadano ogni spazio soffocando le risorse esistenti, fino a renderli quasi dei persecutori/carnefici dotati di menti opache, insondabili e tossiche. Questa condizione, che potremmo definire di oscuramento mentale, o addirittura di cecità, è un effetto che deve essere limitato perché agisce da potente inquinante verso un clima già intrinsecamente compromesso, accelerando la perdita di speranza e di capacità di orientare le azioni di ciascuno. Già, ma cosa si dovrebbe fare, quali “ricette” adottare in concreto per contenere questi effetti? Non credo sia né giusto né onesto sfuggire a questa richiesta con facili frasi alla moda; giungere a una risposta richiede però un percorso concettuale, e per cominciare immaginiamo alcune situazioni:

    1. È il giorno di Natale, e all’improvviso il termosifone del soggiorno inizia a perdere acqua bollente e grigiastra che si sparge rapidamente sul parquet.
    2. Mamma e papà sono in coda alla cassa del supermercato e il loro bambino, con il volto paonazzo, piange, si dimena e grida parole rese ormai incomprensibili dalla foga disperata che lo agita da quasi mezz’ora.
    3. Sono le dieci del mattino e la maestra è già esasperata per l’incontenibile disturbo di un bambino che sembra non riuscire mai a essere impegnato nell’attività del momento, e che trascina alla distrazione molti compagni.

    In tutti e tre i casi è facile immaginare che due domande premano sui loro protagonisti adulti: “che cosa faccio?” è probabilmente la prima, seguita da “perché fa così?”, riferendosi rispettivamente al termosifone e al bambino. Entrambe le domande sembrano alimentarsi di un unico, pressante bisogno: farlo smettere.

    Nella situazione (1) sia il bisogno che le domande sono adeguate per la ricerca di soluzioni, mentre lo sono soltanto in apparenza nelle altre due, rispetto alle quali esse applicano una logica fallace. Nel primo caso esiste infatti un insieme finito di azioni materiali da eseguire per limitare i danni e fermare la perdita, e infine per rimettere in funzione l’oggetto. È del tutto logico per ogni idraulico pensare che la riparazione definitiva richieda necessariamente di comprendere “perché fa così”. È molto raro sentire qualcuno dire “le ho provate tutte, ma il radiatore continua a perdere come prima”, mentre è molto comune che “le ho provate tutte” sia l’inizio di tante lamentele di genitori e docenti. “Le ho provate tutte” è in un certo senso il sintomo dell’applicazione di una serie di logiche fallaci: infatti nelle situazioni simili a (2) e (3) non esiste un insieme finito di azioni materiali da eseguire in nome del bisogno pressante di “farlo smettere”, bisogno che non può essere impunemente trasferito da un prodotto tecnologico a un essere umano. La logica del “perché fa così?” non è di per sé altrettanto fallace, ma lo diventa se non tiene conto, ancora una volta, di quanto sia diverso avere a che fare con oggetti o con esseri umani. Una differenza che, nell’era della tecnica, sfugge ai più. Tendiamo troppo spesso a uniformare il vivente, e soprattutto il pensante e il senziente, al tecnologico. Sembra ovvio, e non lo è, collegare il “perché fa così?” a un’altra domanda, “dov’è localizzato il guasto?”, cosa che poi implica automaticamente mettersene alla ricerca. È una fallacia meccanicistica, quindi, che ci porta a eludere la domanda principale da porsi di fronte a esseri umani: “che cosa ha in mente?” Quando ci relazioniamo a un nostro simile, infatti, non possiamo proprio fare a meno di interpretarne le azioni come il frutto di pensieri, sentimenti e bisogni, ovvero il frutto di contenuti e processi mentali. Quando cessiamo di farlo, l’altro (alunno, genitore, collega…) diventa un oggetto, strumento o ostacolo a seconda, oppure, peggio, viene vissuto come un persecutore e un nemico. In tutti i casi cadiamo nella fallacia meccanicistica, che rende infruttuosi i nostri tentativi di “riparazione” e ci costringe a vissuti di impotenza molto debilitanti. Questa capacità di vedere l’altro come risultato di stati mentali viene denominata in vari modi, ma quello che preferisco è mentalizzazione, il termine scelto dai ricercatori dell’Anna Freud Centre di Londra. La mentalizzazione è un concetto antichissimo e insieme modernissimo: segna l’inizio dell’umanità così come la conosciamo, ma è anche uno dei fronti più avanzati della ricerca psicologica degli ultimi anni.

    Qual è il rapporto tra le considerazioni iniziali a proposito della crisi e il concetto di mentalizzazione? In sintesi: le situazioni stressanti o logoranti, le condizioni potenzialmente depressive e il burnout sono tutti fattori che portano più o meno direttamente a un blocco o a una forte riduzione della capacità di mentalizzare, ovvero a una condizione di cecità mentale. La cecità mentale, dunque, è una sorta di effetto collaterale della crisi, che nello stesso tempo finisce con l’aggravarne le conseguenze sulle persone e sulla qualità complessiva delle istituzioni educative.

    Il libro che ho scritto non parla della mentalizzazione e non è un manuale teorico. È piuttosto uno strumento destinato a tutti coloro che operano a contatto con gli alunni e i loro genitori, per aiutarli a articolare processi di mentalizzazione attraverso narrazioni, principalmente, col supporto di alcune riflessioni.

    È assai probabile che la capacità di mentalizzare abbia promosso il successo evolutivo umano in tempi molto lontani, e sia stata quindi integrata nella nostra eredità, se non propriamente genetica, almeno come funzione alla portata del cervello umano. Sembra che in ogni ambito relazionale essa produca effetti benefici, ma oggi in questa abilità possiamo cercare anche e soprattutto un antidoto ai veleni della crisi culturale, economica e politica che affligge non solo la scuola ma l’intero nostro Paese.
    by-nc-saQuest’opera di Franco Nanni è stata rilasciata con licenza Creative Commons Attribuzione – Non commerciale – Condividi allo stesso modo 3.0 Italia.