Tag: critica della scuola

  • Accogliere o medicalizzare le differenze?

    Analisi e proposte per fermare il declino della scuola

    Franco Nanni

    La scuola si confronta, oggi più che mai, con le differenze tra i discenti che ospita sui propri banchi: per farlo dovrebbe trovare una modalità pedagogica in grado di integrare e compensare le differenze intergenerazionali, e insieme dovrebbe trasformarsi assieme alle mutazioni transgenerazionali. È ovvio che un piccolo di Homo sapiens è geneticamente assimilabile a qualunque altro, ma è altrettanto ovvio che le esperienze di accudimento, di attaccamento, di esplorazione motoria e cognitiva, di apprendimenti formali e informali costituiscono un insieme di fattori che possono modificare sostanzialmente il modo di essere di un bambino. Temo però che questa fondamentale istituzione del nostro Paese stia piuttosto soccombendo alle differenze, e che la sua capacità di accoglierle e integrarle sia al collasso. Cercherò di spiegarne i motivi, e di formulare idee di mutamento che possano arrestare un declino già non più in fase iniziale.

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    L’apparato normativo che disciplina l’erogazione del cosiddetto sostegno scolastico non è più all’altezza della situazione attuale. Nato dapprima con la legge 517/77 e re-inquadrato poi con la legge 104, era destinato in origine agli alunni con importanti disabilità di natura fisica e/o psichica. Nel tempo tuttavia l’insegnante di sostegno è divenuta uno strumento fondamentale di completamento delle risorse umane impiegate nella scuola non solo per gli alunni con gravi disabilità ma per un numero vasto di bambini con lievi e diffuse problematiche emotive e cognitive che comunque necessitano di una attenzione particolare. Sennonché a questo punto si è verificato un secondo insieme di fatti apparentemente mirato a ritrovare lo spirito e la lettera della legge originaria: nel 2008 nuovi criteri di presa in carico per l’integrazione scolastica in direzione di una più severa disciplina, successivamente la legge 170 (dislessia e altri Disturbi Specifici dell’Apprendimento) e infine diverse direttive ministeriali sui cosiddetti BES (Bisogni Educativi Speciali).

    La vera mira di questa trasformazione normativa appare chiara se osserviamo che, a differenza del sostegno scolastico che alloca risorse umane a disposizione di alunni in difficoltà e delle loro classi, tutte le nuove norme di supporto ad alunni con bisogni speciali sono accomunate da una ferrea regola: risorse umane aggiuntive a disposizione = zero.

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    Se rivolgiamo l’attenzione alla scuola primaria, ma con un occhio vigile anche sul triennio della scuola dell’infanzia, possiamo osservare che le classi si stanno gradualmente popolando di una tipologia di bambino che potremmo chiamare “disorganizzato”: si caratterizza soprattutto per avere non bisogni speciali, bensì bisogni normali ma disattesi: a titolo di esempio, aveva bisogno di accudimento e presenza ma è stato inserito troppo precocemente in strutture educative, subendo distacchi troppo precoci e lunghi dalle figure di attaccamento. Spesso non riesce a fidarsi davvero dell’adulto, non riesce a costruire un rapporto significativo con esso al di fuori della famiglia e spesso anche all’interno di essa.

    Il risultato più tipico di questa serie di disarmonie di sviluppo è un bambino intelligente, effervescente e curioso, ma, appunto, disorganizzato, assai carente nelle capacità di contenere gli impulsi, di dirigere le proprie azioni, di esser contenuto dalla parola dell’adulto. Un bambino che non è portatore di alcuna patologia propriamente detta, ma che è “antropologicamente” inadatto alla vita scolastica tradizionalmente intesa, a causa dei suoi tempi di attenzione brevi, della sua ricerca continua di stimoli, della sua intolleranza all’attesa e al vuoto, del suo spasmodico bisogno di attenzione esclusiva da parte dell’adulto, nella aurorale consapevolezza che non può svilupparsi in modo congruo senza di essa. È un individuo incapace di “esserci”, privato dapprima del contatto pelle a pelle prolungato e rassicurante, in seguito della sana esperienza spontanea dell’esplorazione motoria. Sono i bambini dell’horror vacui, continuamente affamati di stimoli esterni che non sanno interiorizzare né far durare. Il disconoscimento del corpo, affettivo cognitivo e percettivo, porta spesso a fenomeni crescenti dello spettro ansioso e ipocondriaco.

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    I genitori dei bambini disorganizzati sono essenzialmente cittadini normali del nostro mondo: vita quotidiana frenetica, senso di urgenza costante o assai frequente, molte incertezze sul proprio ruolo genitoriale, bisogni affettivi propri non del tutto soddisfatti nel passato e/o nel presente. Di fronte alla scuola e alle sue denunce difendono i propri bambini non tanto per convinzione ma per identificazione con essi, e insieme per senso di inadeguatezza, sospesi come sono tra il bisogno compensatorio dei propri irrisolti grumi affettivi e il dogma dei “No che aiutano a crescere”.

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    Le maestre (e i pochi maestri) che operano a contatto con questi bambini possono essere anagraficamente più o meno vicini ai loro genitori. Talvolta apparentemente contrapposti, condividono in realtà molti principi, almeno in astratto: prima di tutto il rispetto delle regole, vera ossessione collettiva del nostro tempo, anche se poi i genitori tendono a pensare che questo rispetto debba essere imposto e insegnato da altri: docenti, catechisti, allenatori sportivi… Ma non da loro stessi. Portare i bambini disorganizzati al rispetto delle regole è impresa ardua, avara di soddisfazioni e altamente stressante. Dopotutto anche le maestre ambirebbero a trovarsi in classe bambini già ben capaci di rispettare le regole per merito dell’opera di genitori solerti che confezionano individui equilibrati, organizzati e soprattutto docili… Perché in fondo è la docilità che si cerca, sia pur riverniciata con la nobile frase rispetto delle regole.

    Arrivati fin qui è doveroso aprire un discorso sulle condizioni di lavoro del corpo docente della scuola primaria e anche di quello dell’infanzia. Non può essere trascurato il dato di fatto che la scuola italiana subisce da decenni tagli progressivi alle risorse, talvolta graduali, talvolta netti e bruschi come i “dieci miliardi di tagli al bilancio di scuola e università tra il 2008 e il 2012.” (R. Ciccarelli su Il Manifesto del 26/3/2013). Le maestre si trovano sempre di più a operare da sole in classi numerose e sempre più popolate di bambini disorganizzati; si tratta di una condizione che genera stress, logorio, rabbia e senso di solitudine, sentimenti tutt’altro che ideali per un proficuo lavoro a contatto coi bambini, che abbassano fortemente la capacità di accogliere e contenere, una capacità cruciale per la funzione docente e educativa.

    Alle volte l’insegnante sotto stress devia la propria irritazione lontano dal bambino per dirigerla tuttavia sui suoi genitori. Si comincia con quotidiani racconti delle malefatte del bambino, buttati addosso al genitore al momento dell’uscita, e quasi sempre mentre il bambino stesso ascolta! Il tono allarmato e la ripetitività della cosa sortiscono effetti vari su papà e mamme, ma il più tipico è la sensazione che vi sia, nel comportamento della maestra, una implicita, perfino ovvia richiesta di “fare qualcosa”, il che significa per la maggior parte delle persone punire il bambino.

    Il “fare qualcosa” del genitore raramente fa migliorare le cose in modo percepibile a scuola, e la situazione entra in stallo. È di solito a questo punto che l’insegnante cala l’asso di briscola: introduce l’idea che il bambino sia “da certificare”, suggerisce di rivolgersi  alla neuropsichiatria ASL. Ci sono naturalmente situazioni che meritano questo genere di iniziativa, ci mancherebbe, tuttavia negli ultimi due/tre anni sono davvero troppe le segnalazioni che, prese in parola dalla famiglia, portano a una valutazione da parte della ASL che non sfocia affatto in una certificazione ex L.104, a volte per la obiettiva assenza di patologie nel bambino, oppure in altri casi per il fatto che quelle eventualmente riscontrate non rientrano nelle nuove, ristrettissime tabelle di ammissibilità.

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    Occorre a questo punto affrontare un altro aspetto conflittuale originato dal combinato delle condizioni di lavoro del corpo docente e della crescente presenza di bambini disorganizzati nella scuola. Si tratta del conflitto latente, ma che monta da qualche anno, tra docenti e professionisti di ambito psicologico a proposito delle valutazioni. “Questo bambino ha qualcosa”, pensa la maestra osservando il suo difficile funzionamento in classe. “Il bambino è nella norma” scrive solerte il neuropsichiatra (pubblico o privato). L’assunto della prima è empirico ma tremendamente generico: siccome in classe non funziona, deve avere qualcosa. L’assunto del secondo è parimenti empirico ma specifico e statistico: ho somministrato i test X, Y e Z e i punteggi ottenuti risultano nella norma, che qui indica una normalità statistica; essa non implica una normalità prescrittiva di adeguatezza rispetto alle richieste comportamentali (e non solo) in ambito scolastico! Inoltre la normalità statistica non implica nemmeno un criterio di “salute” . Dovremmo ricordarci di un alto genere di normalità, quella bio-evolutiva che utilizza i parametri del corpo-mente umano come risultato dell’evoluzione.

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    Il problema è diverso e risiede nel contesto più che nell’alunno: il bambino statisticamente normale di oggi vive in una scuola pensata per i bambini statisticamente normali di ieri. Inoltre la scuola di ieri era stata progressivamente dotata della possibilità relativamente agevole di ottenere risorse di sostegno per tanti bambini che in assenza di ciò sarebbero stati a disagio o nell’impossibilità di integrarsi e di apprendere adeguatamente, pur senza essere portatori di specifiche patologie. Di tutta questa dotazione oggi si è fatto strame, perché la scuola di oggi non è più pensata per alcun genere di normalità statistica dei bambini ma soltanto per una adeguatezza finanziaria a criteri di risparmio e di astratta qualità decisi in qualche sede nazionale o europea. Naturalmente a spese dei più deboli.

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    Tornando alla questione principale, ovvero la solitudine e la fatica delle maestre lasciate sole con classi numerose e popolate di bambini variamente disorganizzati, con le conseguenti richieste   più o meno improprie di “certificazione”, si delinea all’orizzonte un novello “comma 22”: «chi è patologico può richiedere il sostegno scolastico, ma chi richiede il sostegno scolastico non è patologico». Da un lato sembra quasi che ottenere un insegnante di sostegno per alcune ore la settimana sia equiparato alla assegnazione di una pensione di invalidità, che occorre in qualche modo “meritarsi” con una bella patologia da esibire. Sul versante delle docenti una “certificazione” ex L.104 è l’unico modo di avere risorse umane aggiuntive in classe. Ciò costituisce di per sé un fattore incentivante alla crescente medicalizzazione delle differenze che è in atto nella scuola non certo da ieri, ma che sta galoppando a grandi passi. Il paradosso è che con i nuovi criteri del 2008 si può medicalizzare finché si vuole, ma la strada resta sbarrata, e quindi il risultato positivo che queste richieste improprie di certificazione perseguono (risorse umane aggiuntive) non può essere raggiunto. Questo non significa però che tale prassi sia priva di effetti: si abbassano progressivamente i livelli di tolleranza, accoglienza e contenimento per quel bambino per lasciare il posto a un sostanziale disimpegno morale e de-responsabilizzazione verso la qualità dell’intervento educativo, quando non addirittura a logiche espulsive. Si presenta inoltre il rischio che, alla ricerca di un qualche ombrello protettivo verso bambini ritenuti difficili, si percorrano altri canali a risorse zero che si spera siano più facilmente percorribili. Ne sono gli esempi più tipici la sovraesposizione diagnostica verso i DSA e il ricorso indiscriminato all’inquadramento negli alunni con BES. Come poc’anzi detto, anche le diagnosi di ADHD hanno un ruolo non piccolo, ma esse sfociano per lo più in un nulla di fatto (non sono quasi mai abbastanza gravi da soddisfare i limiti assai restrittivi per il sostegno) o, peggio, nel ricorso a farmaci stimolanti come il Ritalin.

    8 Che fare ? Cambiare la scuola per fermare il suo declino

    8.1

    Prima di tutto occorre ristabilire un principio di fondo che rischia di essere completamente disatteso: l’integrazione delle differenze sia come prassi sia come allocazione di risorse umane aggiuntive non risponde a principi medici psichiatrici ma essenzialmente a principi pedagogici. Chiedersi quante insegnanti compresenti sono necessarie per svolgere un buon lavoro in una classe è una domanda pedagogica che richiede una risposta pedagogica, non medica o psichiatrica. Allo stesso modo, chiedersi qual è la miglior mediazione didattica possibile per favorire l’apprendimento della matematica di un particolare bambino o classe di bambini è  anch’essa una domanda pedagogica, non medica e non psichiatrica.

    8.2

    Occorre che la scuola si doti di un repertorio di buone prassi pedagogiche per l’integrazione delle differenze e la buona mediazione didattica. Questo repertorio potrebbe essere organizzato anche su una piattaforma digitale con una logica collaborativa di tipo Wiki che coinvolga l’intelligenza collettiva di tutti coloro che, da docenti e dirigenti, vogliono contribuire alla costruzione di questo repertorio.

    8.3

    Di fronte alle crescenti diversità e difformità che caratterizzano la popolazione scolastica attuale, si deve mettere in opera un altro cambiamento che si sta rivelando cruciale per la salvezza della scuola come istituzione autorevole: considerare con l’occhio della normalità bioevolutiva la quantità e la qualità di richieste comportamentali e cognitive indirizzate ai bambini che siedono a scuola oggi, comparandole anche con il sistema complessivo di vita che li circonda e li coinvolge.

    8.4

    La scuola dovrebbe contrastare con ogni sua forza migliore il diffondersi di insegnanti-diagnoste che appongono etichette psichiatriche a tutto andare e talvolta addirittura stilano su fogli di carta liste di test da effettuare a determinati alunni, test che spesso, se effettuati, risultano poi pienamente normali. Ogni volta che l’insegnante dice “questo bambino ha qualcosa” (intendendo una qualche patologia cognitiva o emotiva) è come se la docente stesse dicendo “questo bambino non mi riguarda”.

    8.5

    Infine, riprendendo il principio iniziale, occorre capovolgere l’assetto normativo di oggi su un punto cardine: la decisione di incrementare le risorse umane a disposizione di una classe e/o di singoli alunni e/o di prevedere strumenti compensativi/dispensativi è, come si è detto, una scelta pedagogica e non medica, che quindi appartiene alla scuola e non può essere condizionata in alcun modo dalla presenza di diagnosi esterne o attestazioni di invalidità. Essa dipende da considerazioni interne al lavoro e alla specificità scolastica, e può derivare da aspetti rilevati nel singolo alunno ma anche da caratteristiche particolari di un certo gruppo-classe.

    Ritengo che in assenza di un serio mutamento nelle direzioni sopra indicate, la scuola italiana sia destinata a un inesorabile declino, peraltro già iniziato da tempo.
    by-nc-saQuest’opera di Franco Nanni è stata rilasciata con licenza Creative Commons Attribuzione – Non commerciale – Condividi allo stesso modo 3.0 Italia.

  • Tristi competenze

    Riflessioni sulla tristezza del pensiero unico delle “competenze”, tratte da un mio testo pubblicato nel 2000

    Questo è quello che da più di mezzo secolo la scuola chiede ai suoi alunni come capacità superiori: capacità logico-astratte.
    Come potrebbe essere altrimenti.
    Dapprima in formulazioni nobili e intellettuali, da Liceo “bene”. Ma ancora eredi di contenuti e forme ottocentesche, di gerarchie calde, di salotti buoni.
    Oggi: scomposizione del sapere in informazioni indifferenti, giustapposte, sezionate in moduli, unità didattiche.
    Razionalizzate.
    Astratte dal tutto-vita che alberga finanche nei meandri della fisica teorica.
    …riorganizzare le discipline in segmenti fortemente omogenei e strutturati in grado di promuovere competenze capitalizzabili. (da un documento IRRSAE)
    Perché negli uffici del Ministero e nelle sue dependance oggi si teorizza questo.
    Si dice: fortemente omogenei.
    Moneta unica.
    Si dice: strutturati.
    Ma la struttura non è quella aggrovigliata e pulsante della vita.
    È struttura ingegneristica.
    Assemblaggio di strutture modulari.
    Dalla istruzione alle cucine componibili il paesaggio è unico. Il Pensiero è Unico.
    Si dice: competenze.
    Non più esseri umani, ma competenze.
    Astrazione.
    Il fine della istituzione-scuola non è più (lo è mai stato?) la trasformazione dei suoi alunni in persone attraverso un lavoro su se stessi, ma la creazione di competenze che, per loro stessa natura, sono spendibili sul mercato del lavoro. Spendibili anche a prescindere dal substrato materiale che dovrebbe contenerli, un essere (accidentalmente?) umano.
    Si dice: capitalizzabili.
    È ciò che Marx indicava come il massimo dell’astrazione raggiunto dal denaro: D – D’.
    * * *
    Ma: esiste un Sapere ed esistono delle Informazioni-istruzioni.
    Le due logiche sono incompatibili tra loro; solo la logica delle informazioni-istruzioni è davvero compatibile col mercato e col Capitale.
    La logica del sapere sostiene che c’è qualcosa che resta anche dopo aver dimenticato tutto ciò che si è imparato.
    Perché non c’è Sapere che non consista in operazioni che la vita compie su se stessa trasformandosi e complicandosi.
    C’è Sapere ogni volta che c’è una, singola vita (ma anche una Comunità) che complica se stessa per prendersi cura della propria evoluzione. Per far questo occorrono naturalmente anche istruzioni e informazioni, ma vengono (logicamente) dopo. Dopo il complicare se stessi per prendersi cura della propria evoluzione.
    * * *
    E c’è una logica delle Istruzioni-Informazioni.
    Apparentemente, sembra tutto a posto. Ci sono delle cose, delle informazioni, delle competenze necessarie “per muoversi nel mondo”. C’è, perfino, ancora l’arte, la letteratura, le emozioni.
    Sembra che l’Istituzione si prenda ancora cura dei suoi discepoli.
    Sembra.
    Ma in quel percorso di astrazione crescente rimane fuori la vita.
    Che non riesce a prendersi cura della propria evoluzione elaborando informazione, instaurando processi cognitivi, masticando moduli, insomma.
    Ci sono le abilità e le competenze utili per muoversi nel mondo.
    Ma quelle vite che abitano ogni giorno le aule sentono quel mondo straniero, lontano e incomprensibile.
    E non hanno nessuna voglia di muovercisi dentro.
    E quindi nessuna voglia di elaborare le informazioni che servono a questo.
    * * *
    Veramente qui bisognerebbe fare un bel distinguo.
    Quelle vite che abitano ogni giorno le aule non sono tutte uguali.
    Hanno storie complesse, irripetibili. Fatte di geni, esperienze, figure genitoriali.
    Storie che fanno sì che solo alcune di queste vite sopravvivano relativamente bene anche in un mondo sempre più astratto.
    E che quindi riescano ad assimilare perfino una istruzione che contiene sempre meno vita.
    Dove la vita è sostituita dalla informazione.
    * * *
    Ma ci sono altre vite che non ci riescono proprio.
    Quindicenni asserragliati in un loro fortino di coetanei, vicini vicini, a scaldarsi.
    Perché fuori, ovunque si guardi, fa freddo. Molto freddo. Un freddo astratto, un’astrazione fredda.
    Un fortino che il mondo, fuori, chiama gruppo dei pari.
    E poi dice: disagio giovanile, disturbi dell’apprendimento, devianza, problemi dell’adattamento, carenze nell’area logico-matematica, o perché no, nell’area linguistica.
    Il cosiddetto gruppo dei pari è forse l’unico luogo dove giovani vite infreddolite trovano calore, comprensione, solidarietà.
    I loro maestri, insegnanti, sono troppo impegnati a riorganizzare il sapere in moduli, a completare l’unità didattica, a compiere verifiche frequenti e puntuali, a preoccuparsi che le competenze capitalizzabili siano entrate a far parte del patrimonio dell’alunno, per ottenere un credito formativo, o anche solo per evitare un debito.
    Si sta parlando della educazione, del sapere da offrire alle giovani vite che iniziano il loro percorso nel mondo.
    Le Comunità dedicano, di solito, le loro energie migliori a questo.
    Anche l’Istruzione ai tempi del Capitale pensa la stessa cosa di se stessa.
    Ma le parole che usa sono le stesse di un estratto conto di una banca o di un fondo di investimento.
    Linguaggio da borsino.
    * * *
    La scuola sperimenta l’autonomia (una variante della libertà individuale) ed elabora il POF, il Progetto dell’Offerta Formativa.
    Per incontrare una Domanda di istruzione, naturalmente.
    E le scuole si faranno concorrenza sul mercato delle iscrizioni.
    E nulla potrà essere insegnato, trasmesso, scambiato, che non sia valutabile.
    Anche lì, come ovunque, ci sono dentro delle vite: sono vite di docenti, vite di studenti.
    Ma non importa.
    Conta ciò che è astratto, quantificabile, scambiabile, discreto, digitale, e soprattutto: valutabile.
    E valutabile nel massimo di oggettività.
    E magari anche: che implementi tecnologie didattiche evolute.
    Tutte tecnologie che servono a nascondere una verità semplice: che da quando la nostra civiltà ha, almeno a livello di massa, rinunciato all’unica “tecnologia” didattica biologicamente fondata, il contatto stretto tra vite in evoluzione e altre vite più esperte, più anziane e più evolute, tutto è diventato estremamente difficile.
    Demotivazione come stato normale.
    Incomunicabilità come stato normale.
    Allora ci vogliono tecnologie didattiche sempre più sofisticate per riuscire comunque ad ottenere qualcosa.
    Perché il contatto tra vite non c’è più.
    O almeno: è troppo concreto, troppo carnale, continuo, analogico per essere considerato significativo.
    A volte, comunque, c’è.
    Più spesso, come ogni cosa trascurata, non c’è.
    E allora alcune di quelle vite che scaldano i banchi ogni mattina decidono di rinunciare.
    In tanti modi: suicidandosi, svenendo in classe per abuso di amfetamine, “andando a lavorare”, vegetando in casa davanti alla TV.
    * * *
    Gli imperativi del sociale al tempo del Capitale sono: il fatturato, lo sviluppo, il livello dei consumi, il PIL, l’indice MIB, le telecomunicazioni, l’occupazione (forse), la repressione della criminalità (forse), e altro, altro ancora.
    Le vite che abitano il sociale sono, al massimo, uno strumento per realizzare le suddette priorità.
    Al sociale non viene proprio in mente di fornire le condizioni affinché quelle vite che lo abitano siano effettivamente vite.
    Al massimo, fornisce loro delle competenze capitalizzabili. Spendibili sul mercato del lavoro. Etc.
    Dal punto di vista dei suoi valori (che sono il PIL, il MIB…) non ha nessuna importanza che quelle vite stiano bene, in un modo o in un altro.
    Un accresciuto consumo di psicofarmaci aumenta il PIL, e il fatturato delle aziende produttrici.
    Punto.
    * * *
    Il sociale non è intrinsecamente pedagogico come lo è la Comunità.
    Però fa comunque delle cose. Fa comunque circolare dei messaggi. Ha comunque delle regole, anche se ama le deregulation.
    Solo che tutto ciò ha lo scopo di assicurare il buon funzionamento e la riproduzione delle condizioni di esistenza del sociale, che sono poi le condizioni di esistenza del Capitale.
    Ma c’è un problema: la vita è predisposta a evolvere in un contesto intrinsecamente pedagogico.
    Nel senso che, in modo analogo all’imprinting animale, è predisposta ad apprendere per semplice esposizione alle cose e ai fatti. Come alla lingua. Se ne cominciano a vedere anche gli aspetti neurologici.
    (i neuroni cosiddetti “mirror”) sono localizzati nella corteccia premotoria dei primati e si attivano quando un animale osserva un altro animale compiere un movimento. Ad esempio, se una scimmia afferra un oggetto, nella scimmia osservatrice si attivano quei neuroni che, nella corteccia premotoria, potrebbero preparare i neuroni della corteccia motoria a realizzare una simile azione. Questi neuroni, che stabiliscono una sorta di “ponte” tra l’osservatore e l’attore, sono attivi anche nella nostra specie. (A. Oliverio)
    Sennonché, le vite al tempo del Capitale sono esposte a un sacco di roba, che ha tutti gli scopi possibili, e principalmente quelli del Capitale stesso, ma non quello di aiutarle a crescere.
    Le vite, al tempo del Capitale, sono esposte prevalentemente a cose che hanno lo scopo di riprodurre le condizioni di esistenza del Capitale, non quelle della vita.
    * * *
    E queste cose potrebbero essere divise in due insiemi: primo, tutto il tormentone funzionale al mantenimento delle condizioni di esistenza del Capitale (di cui la TV è il miglior contenitore).
    Ossia: roba che proprio non c’entra nulla con le condizioni di benessere della vita.
    E nemmeno di benessere della società, se solo si allontanano gli occhi dagli istogrammi del fatturato.
    Dagli indici di sviluppo.
    Secondo: le cose che il sociale ritiene formative, dunque finalizzate, in teoria, al benessere della vita.
    Le cose che formano competenze etc.
    Che però sono progettate secondo una astrazione ingegneristica, modulare, etc.
    Che sono di una logica che non appartiene alla vita.
    Da cui la vita ha ben poco da imparare.
    E allora, poi, interviene la didattica, ossia una tecnologia che serve a far imparare lo stesso delle cose a vite demotivate, e a farlo imparare secondo modalità che non sarebbero quelle della vita.
    La didattica c’è perché c’è la scissione tra il modo in cui la vita sa imparare e quello in cui il Capitale sa insegnare.
    La didattica c’è perché non c’è più il contatto tra vite, non c’è più il fare e il veder fare.
    Perché presuppone discenti in stato di normale carenza motivazionale.
    Perché i loro neuroni mirror non hanno nulla da fare.
    E la delinquenza infantile e giovanile c’è perché i neuroni mirror, rimasti disoccupati tra le mura scolastiche e anche nelle altre misere interazioni umane, non trovano miglior nutrimento che scene violente in TV e Mortal Kombat sulla Play Station.
    * * *
    Perché, si dice, la vita “non educata” si riduce ai suoi istinti, che sono poi aggressivi, etc. etc.
    Sennonché, la vita “non educata” non esiste proprio.
    Perché la vita è, certo, un progetto che viene da dentro (Aletheia), ma in questo dentro ci sono anche precise aspettative sul fatto che il fuori sia intrinsecamente pedagogico.
    E se non lo è, essa lo usa comunque come se lo fosse.
    Impara da ciò che vede.
    Impara da ciò che sente.
    Impara da ciò che tocca.
    La vita è sempre “educata”.
    Dipende da cosa.
    Se più da Mortal Kombat o da un contatto significativo tra vite.
    La differenza è tutta lì.
    * * *
    C’è stata, diciamo nella prima metà del ‘900, una sorta di “specializzazione”.
    Il razionale alla scienza, all’economia… etc.
    E l’emozionale agli psicanalisti e agli artisti; nemmeno tutti gli artisti, perché da un certo punto in poi l’arte a la page si occupava di “riformare e razionalizzare i linguaggi”, di “moltiplicare e possibilità linguistico-espressive” etc., insomma, non si occupavano più di emozioni, che era roba per l’industria culturale, arte degenerata, insomma.
    Fin qui, almeno, si poteva dire che le emozioni erano ancora davvero il sentire della vita, per quanto una vita ancora un po’ animale, spontanea, poco interessante…
    Erano i tempi in cui la pubblicità faceva ancora appello alla razionalità del consumatore, tanto per capirci.
    * * *
    Poi, però, le cose sono cambiate.
    C’è stata la riscoperta delle emozioni.
    Non si parla d’altro, ormai, nei salotti e altrove.
    Le emozioni sono entrate nel mercato.
    Sono quotate in borsa.
    Perché sono diventate il terreno di conquista delle strategie del Capitale.
    L’industria del tempo libero è una industria sempre più dedicata alla produzione in serie di emozioni.
    * * *
    Allora è chiaro che le emozioni non sono più nella sostanza il sentire della vita, ma sono colonizzate e controllate dalle strategie di comunicazione del Capitale; perché controllare le emozioni, che sono davvero il sentire della vita, significa dare un impulso ai consumi mai visto prima, quando si faceva appello alla razionalità.
    Questo lo sa ogni pubblicitario alle prime armi.
    Lo sapevano benissimo, e prima, i sociologi delle ricerche motivazionali.
    Peccato che quando la sfera emotiva diventa il luogo strategico per incrementare i consumi, essa cessi anche di essere il sentire della vita per la vita stessa e contro la morte.
    È ancora il sentire della vita, certo.
    Ma serve soprattutto ad altro.
    Serve, ancora una volta, a mantenere in buona salute le condizioni di riproduzione del Capitale, e non della vita.
    Lo si vede molto bene nei membri più svantaggiati delle ultimissime generazioni, cresciuti soli per ore davanti a quella finestra sul mercato che è la TV.
    È una generazione che ha un basso livello di autoconsiderazione, una sensibilità gracile, introversa, indolente, un’inerzia provocata da un’eccessiva esposizione agli influssi della televisione, un’unica preoccupazione: procurarsi un’incredibile quantità di prodotti, di oggetti, di beni di consumo e di esibizione. (…) E così a questa generazione del malessere viene attribuita una valenza di mercato prima che di identità. (U. Galimberti)
    * * *
    Le emozioni sono divenute il nuovo ambiente da bonificare.
    Terreno di conquista.
    Non si vendono più beni, oggetti, cose utili.
    Si vendono emozioni con in omaggio un oggetto.
    Le emozioni entrano nel Mercato.
    Ma sono ancora, e sempre, il sentire della vita.
    Se solo quelle vite che le ospitano sapessero ripercorrere il cammino verso una sensibilità per il sentire della vita.
    Se solo sapessero come si fa.
    Se solo potessero tornare a fidarsi del loro sentire.
    Se solo trovassero una, almeno una istanza educativa che si occupi di loro.
    * * *
    Perché delle emozioni, oggi, si occupano in molti.
    Pubblicitari, esperti di marketing, progettisti di videogiochi, consulenti dei partiti, costruttori di immagini, formatori aziendali, venditori…
    Tutta gente rispettabile, per carità.
    Ma poco interessata a creare un contesto intrinsecamente pedagogico.
    * * *
    La scuola potrebbe farlo.
    Ma, per motivi nel tempo diversi, le emozioni le ha sempre lasciate fuori dalla porta.
    Almeno, nella “vecchia” scuola si parlava delle emozioni dei poeti.
    Le “vecchie” professoresse si scaldavano, da dietro alla cattedra, di fronte ai tormenti e alle passioni dei poeti.
    E, traslucide, anche quelle degli studenti avevano un piccolo spazio.
    Lo intravedevano.
    Era poco, forse, ma era qualcosa.
    Ma nella scuola “rinnovata” finalmente ci atteniamo ad inquadrare storicamente l’autore.
    Facciamo analisi del testo.
    Non c’è più nemmeno quel particolare incontro tra vite che è l’incontro tra uno studente e un Autore.
    Ora si incontra il testo, il materiale, la struttura.
    Così è più scientifico, oggettivo.
    Asettico.
    Materia prima.
    Una materia prima che serve, naturalmente, a creare competenze capitalizzabili.
    E che evita accuratamente di creare competenze emozionali.
    * * *
    Perché la vita, da sola, non impara a stare bene con le proprie emozioni.
    O, almeno, non riesce a farlo in un ambiente che non è intrinsecamente pedagogico.
    In un ambiente che colonizza il sentire della vita in funzione della riproduzione del Capitale.
    E allora poi bisogna curare, perché prevenire, no, prevenire non lo si è fatto e non lo si fa.
    È un tipo di prevenzione che il Capitale non sa fare.
    * * *
    “Non siamo psicologi” continuano a ripetere come un nastro rotto gli insegnanti di ogni ordine e grado.
    Dicendo con questo due cose importanti.
    Primo: che non intendono occuparsi di queste cose, e che non intendono essere vite a contatto quelle altre vite così silenziose e incomprensibili; non intendono essere vite ma professionalità docente, fornitori di competenze capitalizzabili.
    Che, in quanto vite, intendono astenersi.
    Secondo: che si rendono conto che quelle vite che scaldano i banchi non imparano nulla da loro, stando così le cose.
    Ma che, corrotti alla logica della professionalità, non sanno immaginare nessuna soluzione al problema che non sia una soluzione tecnica, professionale.
    “Ci vorrebbe lo psicologo”.
    Una professionalità che essi non possiedono, e perfino sospetta.
    Troppo a contatto con l’interiorità, le emozioni, la vita.
    Naturalmente, se è un certo tipo di psicologo.
    Perché, naturalmente, anche qui c’è una cultura della professionalità.
    E per chi studia psicologia, oggi, sono divenuti obbligatori soprattutto
    gli esami di statistica e di testistica, come se nell’approccio clinico capire cosa passa nel vissuto del paziente avesse decisamente meno rilevanza di quanto non ne abbia rassemblare dati grezzi per indagini statistiche, o somministrare test che danno tanto l’impressione di scientificità, dove è garantita la professionalità dello psicologo anche nel fallimento dell’incontro. (U. Galimberti)
    * * *
    Il paradigma scientifico è un complesso di metodi in evoluzione finalizzati ad una conoscenza, anch’essa in evoluzione, del mondo fisico e del mondo della vita.
    Dove è chiaro che il mondo della vita ha una sua specificità.
    Come è chiaro che quando, in questo scritto, si parla della “vita”, non si fa appello ad un vitalismo irrazionalistico, romantico, ad un manierismo rétro.
    La scoperta della vita come materia che si fa spirito, come un tutto autopoietico, deriva proprio dal sapere scientifico più avanzato.
    Deriva da riflessioni che sono impensabili senza l’apporto della biologia, della neurologia, etc.
    Anche le grandi organizzazione del sociale, al tempo del Capitale, aspirano ad essere sempre più scientifiche.
    Ma alla fin fine, più che di scientificità, sembra trattarsi di scientismo.
    Di una applicazione diffusa e indiscriminata di alcuni segmenti del pensiero scientifico, e nemmeno i più recenti.
    Nemmeno i più coerenti con la logica del vivente.
    Il Capitale preferisce altre cose.
    Il Capitale ama: l’oggettività, la ripetibilità, la prevedibilità, il controllo, la generalizzazione, l’astrazione.
    Ama razionalizzare, ma di una razionalità che non è quella della vita.
    Una razionalità che, non appena può, tenta di “migliorare” le irrazionalità della vita.
    * * *
    C’è, in definitiva, una scelta di campo.
    Se la vita è la massima forma di razionalità, a cui far tendere ogni altra forma di razionalità.
    O se la razionalità astratta, modulare, seriale, ripetibile e fungibile sia la massima forma di razionalità alla quale piegare anche il vivente.
    Le grandi organizzazioni del sociale, il Capitale, i Ministeri propendono fortemente per la seconda opzione.
    Quando le grandi organizzazioni del sociale respingono istanze, ipotesi, modi di affrontare i problemi bollandoli come “non scientifici”, pare di capire che intendano dire: non sono omologati alla nostra opzione su cosa sia razionalità.
    Che per noi significa: non è abbastanza astratto, serializzabile, ripetibile, oggettivizzato…
    * * *
    Ed è in nome di questa opzione che la scuola si modernizza, ovvero si razionalizza.
    Il dialogo tra vite, il contatto, attimo per attimo, “non è scientifico”.
    È troppo soggettivo, locale, specifico, imprevedibile, unico, analogico.
    E oggi l’istruzione deve essere oggettiva, universale, generale, prevedibile, ripetibile, digitale.
    Nonostante i risultati.
    Perché anche nelle dependance del ministero si sa bene che i risultati scolastici degli studenti sono, anno dopo anno, più scadenti.
    E si sa anche che la violenza giovanile diventa sempre meno marginale e sempre più “normale”.
    Si è rassegnati all’idea.
    Ma, schizofrenicamente, si persiste ancora più fortemente nel razionalizzare, approfondendo ancora di più un abisso tra la scuola e i suoi destinatari.
    Che sono sempre meno razionali.
    Perché la logica razionale del Capitale ha deciso che le emozioni, e non la razionalità, erano il nuovo terreno di conquista per le sue strategie di espansione della domanda.
    Accade così che le nuove generazioni abbiano
    un’emotività molto più potente e uno spazio di riflessione molto più modesto. Il loro fondo emotivo è stato sollecitato fin dalla più tenera età da un volume di sensazioni e di impressioni eccessive rispetto alla loro capacità di contenimento. A partire dai primi anni di vita hanno fatto troppa esperienza (televisiva e non) rispetto alla loro capacità di elaborarla. (U.G.)
    L’abitudine a riflettere sull’emozione, che significa rispetto e attenzione per quello che è il sentire della vita, è sempre meno praticata.
    Le esperienze del contatto, del contenimento, del limite, che sono i precursori di questa abitudine, sono esperienze sempre più rare per i bambini.
    Così accade che le nuove generazioni avranno sempre più un emotivo lasciato a se stesso, educato dalla TV e dalla PlayStation, accanto ad un cognitivo carente perché non fondato sulla sua base naturale, il sentire della vita.
    Perché, giova ripeterlo, non esiste un cognitivo che sia davvero autonomo dall’emotivo, anzi, il cognitivo non è che un complicarsi dell’emotivo.
    Perché è sulle emozioni, sull’emotivo, e non su altro, che quel mammifero superiore che è l’uomo ha costruito il suo cognitivo.
    * * *
    È giunto il momento di invocare, a gran voce, un cambio di direzione.
    Non certo da parte del Capitale.
    Ma da alcune istituzioni, che avrebbero, come ragione sociale, il “benessere morale e spirituale” dei cittadini e della collettività.
    E, all’interno di questo cambio di direzione, si possono stabilire delle priorità.
    L’approdo più alto (e anche il meno probabile) sarebbe un cambio di paradigma coraggioso e radicale, almeno da parte delle istituzioni educative, se non da parte di tutte le grandi organizzazioni del sociale.
    Per far sì che, almeno nelle scuole, prevalesse la razionalità della vita anziché quella delle tassonomie.
    Che vuol poi dire: ridare spazio al contatto tra vite nella educazione.
    E perché no, nella sanità.
    Negli istituti per anziani.
    Nei reparti maternità.
    * * *
    In seconda istanza: mancando un contesto sociale intrinsecamente pedagogico, almeno la scuola dovrebbe tentare di creare una prassi, al suo interno, che sia intrinsecamente pedagogica.
    Il che significherebbe almeno riformare radicalmente la classe insegnante preparandola al dialogo tra vite, all’attenzione all’emotività dell’altro, alla capacità di rapportarsi a vite a cui sono mancate sufficienti occasioni di contatto e di apprendimento implicito in famiglia.
    * * *
    O quantomeno, in subordine, che la scuola includesse tra le “cose da fare” la creazione di un contesto intrinsecamente pedagogico che favorisca l’integrazione emotiva fin dai primi anni, e fino alla tarda adolescenza.
    Che la scuola ammettesse, e senza toni accusatori, le carenze e l’inadeguatezza di molte famiglie d’oggi, e decidesse di farsene carico, non come terapia, ma come intervento suppletivo, preventivo.
    Per uscire dalla schizofrenia di vedere le nuove generazioni perdersi ogni giorno di più nel magma emotivo, e continuare ad occuparsi, come niente fosse, di un cognitivo che, senza la sua base emozionale, continuerà a divenire sempre più carente.

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