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  • I bambini dell’horror vacui

    Una nuova tipologia di bambini in arrivo? No, solamente “normali”

    Se rivolgiamo l’attenzione alla scuola primaria, ma con uno sguardo attento anche sul triennio della scuola dell’infanzia, possiamo osservare che le classi si stanno gradualmente popolando di una tipologia di bambino che potremmo provvisoriamente denominare “disorganizzato” con una definizione volutamente vaga, e che, per evitare ulteriori etichettamenti, chiameremo semplicemente “D”. Voglio chiarire fin da ora che il bambino D non è affatto una nuova categoria di bambini: ne sono state già aggiunte fin troppe e i genitori in pena non fanno altro che vagare sul Web alla ricerca dell’etichetta giusta da mettere sui loro bambini difficili (e ne trovano a iosa). Quando parlo di “bambino D” mi riferisco prima di tutto a una grande varietà di individui accomunati soltanto da un nucleo comune di esperienze, di modalità di relazione e di organizzazione delle capacità e delle emozioni. Le componenti di quel nucleo comune sono anch’esse variabili tra soggetto e soggetto. Si tratta in altri termini non dell’ennesimo bambino speciale ma del genere di bambino che si sta avviando a divenire normale o medio.

    Il bambino D si caratterizza soprattutto per avere non bisogni speciali, bensì bisogni normali ma disattesi: a puro titolo di esempio, aveva bisogno di accudimento e presenza ma è stato inserito troppo precocemente in strutture educative, aveva bisogno di tempo per maturare e apprendere ma è stato sollecitato a produrre performance che non era ancora in grado di dare… Ha bisogno di spazi aperti e movimento spontaneo ma passa ore e ore al chiuso e fermo. Ha vissuto i primi anni di vita in modo disarmonico, con troppe figure di riferimento e troppi cambiamenti; prevalentemente in ambienti piccoli e chiusi, in strutture governate da adulti, tanto che le esperienze motorie spontanee ne escono massimamente sacrificate, a favore, spesso, di un uso/abuso di mezzi tecnologici che partono dalla semplice televisione per arrivare al tablet e alla consolle per videogiochi. Il bambino D è un bambino sovrastimolato, per di più in modo assai sbilanciato, con eccessi e carenze in aree diverse, ovvero, tipicamente: troppi stimoli verbali e cognitivi, pochi o troppo settoriali quelli relazionali e corporei, disfunzionali quelli specifici dell’attaccamento.

    Volendo rappresentare il tutto con un esempio ricavato dall’alimentazione, potremmo dire che il corpo umano estrae i nutrienti di cui abbisogna da tutti gli alimenti che vengono introdotti, ed è il corpo stesso a selezionare di volta in volta quello che gli serve. Se la dieta è sufficientemente variata possiamo dire che vengono soddisfatti complessivamente tutti i bisogni nutritivi, ma se essa diviene troppo ristretta, sbilanciata o scarsa, il corpo non trova più tutto il necessario e possono crearsi disfunzioni, patologie o altri disturbi. Fuor di metafora, la dieta di esperienze relazionali, corporee e emotive di un bambino medio di oggi è contraddistinta da squilibri e disarmonie con significative carenze e eccessi tali per cui la costruzione progressiva e intrecciata delle varie intelligenze e delle funzioni esecutive può mancare di parti rilevanti. Quando poc’anzi ho affermato che questa tipologia di bambini ha bisogni normali ma disattesi mi riferisco proprio al fatto che le condizioni in cui essi si sviluppano rischiano di essere, e talvolta sono troppo lontane dalle aspettative di cui il sistema nervoso umano è portatore. La grande flessibilità che ci contraddistingue ha portato a considerare infinite o quasi le possibilità di adattamento del bambino al suo ambiente di crescita, ma ciò non corrisponde al vero: per quanto flessibili, le capacità di adattamento dei nostri cuccioli hanno dimensioni finite. Esiste quindi una normalità bioevolutiva entro la quale si collocano i bisogni normali ma disattesi dei bambini D. Quando ci si allontana troppo da essa si verificano carenze e disarmonie, il cui risultato più tipico è un bambino intelligente (nella norma o sopra), effervescente e curioso, ma disorganizzato, assai carente nelle capacità di contenere gli impulsi, di dirigere le proprie azioni, di esser contenuto dalla parola dell’adulto. Un bambino che non è portatore di alcuna patologia propriamente detta, ma che è “antropologicamente” inadatto alla vita scolastica tradizionalmente intesa, a causa dei suoi tempi di attenzione brevi, della sua ricerca continua di stimoli, della sua intolleranza all’attesa e al vuoto, del suo spasmodico bisogno di attenzione esclusiva da parte dell’adulto, nella aurorale consapevolezza che non può svilupparsi in modo congruo senza di essa. Egli sconta in qualche modo la sua propria disorganizzazione nelle varie aree:

    • Disorganizzazione motoria, per aver vissuto troppo a lungo sballottato da un ambiente chiuso all’altro, in automobile, in passeggino, senza poter esplorare l’ambiente fisico con il proprio corpo. Al massimo, egli riceverà un addestramento formale in uno specifico sport dove potrà perfino eccellere sotto lo sguardo fiero di mamma e papà, ma continuerà a conoscere il proprio corpo non come fenomeno vitale emergente, ma soltanto come strumento.

    • Disorganizzazione affettiva, per aver subìto distacchi troppo precoci e lunghi dalle figure di attaccamento. Non riesce a fidarsi davvero dell’adulto, non riesce a costruire un rapporto significativo con esso al di fuori della famiglia e spesso anche all’interno di essa. Vive una incolmabile ansia per la separazione, piange a lungo al distacco entrando a scuola o rifiuta di entrare. Cerca disperatamente il contatto con l’adulto al momento del dormire. Oppure abbandona la speranza dell’attaccamento e vive in una dimensione di superficie e di evitamento del legame, diventando un iperattivo “amico di tutti” e dunque in fin dei conti di nessuno.

    • Disorganizzazione attentiva, per carenza di tutte quelle esperienze stratificate che portano a maturazione i circuiti neurali preposti all’attenzione (scambi affettivi con la madre, scambi verbali, ostensione e presentazione degli oggetti da parte dell’adulto, relazioni significative e orientate da una figura-guida, esperienze motorie spontanee, gioco libero… E tanto altro). Essi sono quasi sempre squilibrati nel focus dell’attenzione: completamente assorbiti da sé stessi e da stimoli interocettivi e egosintonici, o viceversa iper-vigili verso l’ambiente in modo non selettivo (con conseguente alta distraibilità). Per molti bambini D l’unico stimolo in grado di orientare e focalizzare a lungo l’attenzione è costituito da quei potentissimi dispositivi elettronici (con relativi raffinatissimi software) chiamati videogiochi. Attaccati alla consolle (Playstation, Xbox, ecc.) o al tablet, certi bambini possono erogare livelli di attenzione sostenuta impensabili in altri contesti.

    • Disorganizzazione delle autonomie, per aver vissuto una miscela sbilanciata di iper protezione e spinte anticipate al far da sé, miscela spesso ritagliata esclusivamente sui bisogni concreti e affettivi del genitore.

    • Disorganizzazione del rapporto emotivo e cognitivo con sé stessi. Questi bambini operativamente “non sanno chi sono”. Le precedenti forme di disorganizzazione, sommate insieme, generano un individuo incapace di “esserci”. Il suo corpo è rimasto due volte svuotato, dapprima del contatto pelle a pelle prolungato e rassicurante, in seguito della sana esperienza spontanea dell’esplorazione motoria. Ne risultano appetiti variamente insaziabili in uno o in entrambi i campi. Abitano corpi vuoti e sconosciuti, questi bambini dell’horror vacui, continuamente affamati di stimoli esterni che non sanno interiorizzare né far durare. Il disconoscimento del corpo, affettivo cognitivo e percettivo, porta spesso a fenomeni crescenti dello spettro ansioso e ipocondriaco.

    Immaginare classi formate solo da bambini disorganizzati oltre che spaventoso è anche fuorviante: prima di tutto perché le caratteristiche di disorganizzazione descritte possono variare molto per intensità e per dosaggio complessivo, creando situazioni personali sfumate, mutevoli e in definitiva uniche. In secondo luogo queste caratteristiche si vanno a sommare algebricamente ad altre variabili personali, che spostano gli equilibri individuali sia in direzione della resilienza e della adeguatezza che in direzione opposta, verso anomalie importanti fino alla patologia, o a quella pseudo-patologia sovradiagnosticata denominata ADHD (Disturbo da Deficit di Attenzione e Iperattività). Si tratta in realtà di una mera sindrome, o ancor meglio di un aggregato variabile di sintomi dalla eziologia vaga, molteplice e confusa, come ammise candidamente lo stesso psichiatra Leon Eisenberg, che per primo quaranta anni fa codificò l’ADHD, in una sua intervista al settimanale tedesco Spiegel: “L’ADHD è il primo esempio di malattia fittizia” e ancora: “La predisposizione genetica per l’ADHD è completamente sopravvalutata”.

    Nella mia esperienza concreta di psicologo nella scuola credo di poter affermare che il bambino fortemente disorganizzato è ancora largamente minoritario: potremmo approssimarlo grossolanamente a meno di un individuo ogni venti, dunque al di sotto del 5o centile. Se spostiamo invece l’attenzione verso bambini variamente disorganizzati, che presentano solo alcuni tratti o anche tutti ma in grado lieve, allora le proporzioni cambiano e arrivo a immaginare che questa tipologia di alunno non solo rientri già assolutamente nella norma, ma che gradualmente finisca con l’occupare la zona centrale e maggioritaria.

    by-nc-saQuest’opera di Franco Nanni è stata rilasciata con licenza Creative Commons Attribuzione – Non commerciale – Condividi allo stesso modo 3.0 Italia.

  • Accogliere o medicalizzare le differenze?

    Analisi e proposte per fermare il declino della scuola

    Franco Nanni

    La scuola si confronta, oggi più che mai, con le differenze tra i discenti che ospita sui propri banchi: per farlo dovrebbe trovare una modalità pedagogica in grado di integrare e compensare le differenze intergenerazionali, e insieme dovrebbe trasformarsi assieme alle mutazioni transgenerazionali. È ovvio che un piccolo di Homo sapiens è geneticamente assimilabile a qualunque altro, ma è altrettanto ovvio che le esperienze di accudimento, di attaccamento, di esplorazione motoria e cognitiva, di apprendimenti formali e informali costituiscono un insieme di fattori che possono modificare sostanzialmente il modo di essere di un bambino. Temo però che questa fondamentale istituzione del nostro Paese stia piuttosto soccombendo alle differenze, e che la sua capacità di accoglierle e integrarle sia al collasso. Cercherò di spiegarne i motivi, e di formulare idee di mutamento che possano arrestare un declino già non più in fase iniziale.

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    L’apparato normativo che disciplina l’erogazione del cosiddetto sostegno scolastico non è più all’altezza della situazione attuale. Nato dapprima con la legge 517/77 e re-inquadrato poi con la legge 104, era destinato in origine agli alunni con importanti disabilità di natura fisica e/o psichica. Nel tempo tuttavia l’insegnante di sostegno è divenuta uno strumento fondamentale di completamento delle risorse umane impiegate nella scuola non solo per gli alunni con gravi disabilità ma per un numero vasto di bambini con lievi e diffuse problematiche emotive e cognitive che comunque necessitano di una attenzione particolare. Sennonché a questo punto si è verificato un secondo insieme di fatti apparentemente mirato a ritrovare lo spirito e la lettera della legge originaria: nel 2008 nuovi criteri di presa in carico per l’integrazione scolastica in direzione di una più severa disciplina, successivamente la legge 170 (dislessia e altri Disturbi Specifici dell’Apprendimento) e infine diverse direttive ministeriali sui cosiddetti BES (Bisogni Educativi Speciali).

    La vera mira di questa trasformazione normativa appare chiara se osserviamo che, a differenza del sostegno scolastico che alloca risorse umane a disposizione di alunni in difficoltà e delle loro classi, tutte le nuove norme di supporto ad alunni con bisogni speciali sono accomunate da una ferrea regola: risorse umane aggiuntive a disposizione = zero.

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    Se rivolgiamo l’attenzione alla scuola primaria, ma con un occhio vigile anche sul triennio della scuola dell’infanzia, possiamo osservare che le classi si stanno gradualmente popolando di una tipologia di bambino che potremmo chiamare “disorganizzato”: si caratterizza soprattutto per avere non bisogni speciali, bensì bisogni normali ma disattesi: a titolo di esempio, aveva bisogno di accudimento e presenza ma è stato inserito troppo precocemente in strutture educative, subendo distacchi troppo precoci e lunghi dalle figure di attaccamento. Spesso non riesce a fidarsi davvero dell’adulto, non riesce a costruire un rapporto significativo con esso al di fuori della famiglia e spesso anche all’interno di essa.

    Il risultato più tipico di questa serie di disarmonie di sviluppo è un bambino intelligente, effervescente e curioso, ma, appunto, disorganizzato, assai carente nelle capacità di contenere gli impulsi, di dirigere le proprie azioni, di esser contenuto dalla parola dell’adulto. Un bambino che non è portatore di alcuna patologia propriamente detta, ma che è “antropologicamente” inadatto alla vita scolastica tradizionalmente intesa, a causa dei suoi tempi di attenzione brevi, della sua ricerca continua di stimoli, della sua intolleranza all’attesa e al vuoto, del suo spasmodico bisogno di attenzione esclusiva da parte dell’adulto, nella aurorale consapevolezza che non può svilupparsi in modo congruo senza di essa. È un individuo incapace di “esserci”, privato dapprima del contatto pelle a pelle prolungato e rassicurante, in seguito della sana esperienza spontanea dell’esplorazione motoria. Sono i bambini dell’horror vacui, continuamente affamati di stimoli esterni che non sanno interiorizzare né far durare. Il disconoscimento del corpo, affettivo cognitivo e percettivo, porta spesso a fenomeni crescenti dello spettro ansioso e ipocondriaco.

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    I genitori dei bambini disorganizzati sono essenzialmente cittadini normali del nostro mondo: vita quotidiana frenetica, senso di urgenza costante o assai frequente, molte incertezze sul proprio ruolo genitoriale, bisogni affettivi propri non del tutto soddisfatti nel passato e/o nel presente. Di fronte alla scuola e alle sue denunce difendono i propri bambini non tanto per convinzione ma per identificazione con essi, e insieme per senso di inadeguatezza, sospesi come sono tra il bisogno compensatorio dei propri irrisolti grumi affettivi e il dogma dei “No che aiutano a crescere”.

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    Le maestre (e i pochi maestri) che operano a contatto con questi bambini possono essere anagraficamente più o meno vicini ai loro genitori. Talvolta apparentemente contrapposti, condividono in realtà molti principi, almeno in astratto: prima di tutto il rispetto delle regole, vera ossessione collettiva del nostro tempo, anche se poi i genitori tendono a pensare che questo rispetto debba essere imposto e insegnato da altri: docenti, catechisti, allenatori sportivi… Ma non da loro stessi. Portare i bambini disorganizzati al rispetto delle regole è impresa ardua, avara di soddisfazioni e altamente stressante. Dopotutto anche le maestre ambirebbero a trovarsi in classe bambini già ben capaci di rispettare le regole per merito dell’opera di genitori solerti che confezionano individui equilibrati, organizzati e soprattutto docili… Perché in fondo è la docilità che si cerca, sia pur riverniciata con la nobile frase rispetto delle regole.

    Arrivati fin qui è doveroso aprire un discorso sulle condizioni di lavoro del corpo docente della scuola primaria e anche di quello dell’infanzia. Non può essere trascurato il dato di fatto che la scuola italiana subisce da decenni tagli progressivi alle risorse, talvolta graduali, talvolta netti e bruschi come i “dieci miliardi di tagli al bilancio di scuola e università tra il 2008 e il 2012.” (R. Ciccarelli su Il Manifesto del 26/3/2013). Le maestre si trovano sempre di più a operare da sole in classi numerose e sempre più popolate di bambini disorganizzati; si tratta di una condizione che genera stress, logorio, rabbia e senso di solitudine, sentimenti tutt’altro che ideali per un proficuo lavoro a contatto coi bambini, che abbassano fortemente la capacità di accogliere e contenere, una capacità cruciale per la funzione docente e educativa.

    Alle volte l’insegnante sotto stress devia la propria irritazione lontano dal bambino per dirigerla tuttavia sui suoi genitori. Si comincia con quotidiani racconti delle malefatte del bambino, buttati addosso al genitore al momento dell’uscita, e quasi sempre mentre il bambino stesso ascolta! Il tono allarmato e la ripetitività della cosa sortiscono effetti vari su papà e mamme, ma il più tipico è la sensazione che vi sia, nel comportamento della maestra, una implicita, perfino ovvia richiesta di “fare qualcosa”, il che significa per la maggior parte delle persone punire il bambino.

    Il “fare qualcosa” del genitore raramente fa migliorare le cose in modo percepibile a scuola, e la situazione entra in stallo. È di solito a questo punto che l’insegnante cala l’asso di briscola: introduce l’idea che il bambino sia “da certificare”, suggerisce di rivolgersi  alla neuropsichiatria ASL. Ci sono naturalmente situazioni che meritano questo genere di iniziativa, ci mancherebbe, tuttavia negli ultimi due/tre anni sono davvero troppe le segnalazioni che, prese in parola dalla famiglia, portano a una valutazione da parte della ASL che non sfocia affatto in una certificazione ex L.104, a volte per la obiettiva assenza di patologie nel bambino, oppure in altri casi per il fatto che quelle eventualmente riscontrate non rientrano nelle nuove, ristrettissime tabelle di ammissibilità.

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    Occorre a questo punto affrontare un altro aspetto conflittuale originato dal combinato delle condizioni di lavoro del corpo docente e della crescente presenza di bambini disorganizzati nella scuola. Si tratta del conflitto latente, ma che monta da qualche anno, tra docenti e professionisti di ambito psicologico a proposito delle valutazioni. “Questo bambino ha qualcosa”, pensa la maestra osservando il suo difficile funzionamento in classe. “Il bambino è nella norma” scrive solerte il neuropsichiatra (pubblico o privato). L’assunto della prima è empirico ma tremendamente generico: siccome in classe non funziona, deve avere qualcosa. L’assunto del secondo è parimenti empirico ma specifico e statistico: ho somministrato i test X, Y e Z e i punteggi ottenuti risultano nella norma, che qui indica una normalità statistica; essa non implica una normalità prescrittiva di adeguatezza rispetto alle richieste comportamentali (e non solo) in ambito scolastico! Inoltre la normalità statistica non implica nemmeno un criterio di “salute” . Dovremmo ricordarci di un alto genere di normalità, quella bio-evolutiva che utilizza i parametri del corpo-mente umano come risultato dell’evoluzione.

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    Il problema è diverso e risiede nel contesto più che nell’alunno: il bambino statisticamente normale di oggi vive in una scuola pensata per i bambini statisticamente normali di ieri. Inoltre la scuola di ieri era stata progressivamente dotata della possibilità relativamente agevole di ottenere risorse di sostegno per tanti bambini che in assenza di ciò sarebbero stati a disagio o nell’impossibilità di integrarsi e di apprendere adeguatamente, pur senza essere portatori di specifiche patologie. Di tutta questa dotazione oggi si è fatto strame, perché la scuola di oggi non è più pensata per alcun genere di normalità statistica dei bambini ma soltanto per una adeguatezza finanziaria a criteri di risparmio e di astratta qualità decisi in qualche sede nazionale o europea. Naturalmente a spese dei più deboli.

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    Tornando alla questione principale, ovvero la solitudine e la fatica delle maestre lasciate sole con classi numerose e popolate di bambini variamente disorganizzati, con le conseguenti richieste   più o meno improprie di “certificazione”, si delinea all’orizzonte un novello “comma 22”: «chi è patologico può richiedere il sostegno scolastico, ma chi richiede il sostegno scolastico non è patologico». Da un lato sembra quasi che ottenere un insegnante di sostegno per alcune ore la settimana sia equiparato alla assegnazione di una pensione di invalidità, che occorre in qualche modo “meritarsi” con una bella patologia da esibire. Sul versante delle docenti una “certificazione” ex L.104 è l’unico modo di avere risorse umane aggiuntive in classe. Ciò costituisce di per sé un fattore incentivante alla crescente medicalizzazione delle differenze che è in atto nella scuola non certo da ieri, ma che sta galoppando a grandi passi. Il paradosso è che con i nuovi criteri del 2008 si può medicalizzare finché si vuole, ma la strada resta sbarrata, e quindi il risultato positivo che queste richieste improprie di certificazione perseguono (risorse umane aggiuntive) non può essere raggiunto. Questo non significa però che tale prassi sia priva di effetti: si abbassano progressivamente i livelli di tolleranza, accoglienza e contenimento per quel bambino per lasciare il posto a un sostanziale disimpegno morale e de-responsabilizzazione verso la qualità dell’intervento educativo, quando non addirittura a logiche espulsive. Si presenta inoltre il rischio che, alla ricerca di un qualche ombrello protettivo verso bambini ritenuti difficili, si percorrano altri canali a risorse zero che si spera siano più facilmente percorribili. Ne sono gli esempi più tipici la sovraesposizione diagnostica verso i DSA e il ricorso indiscriminato all’inquadramento negli alunni con BES. Come poc’anzi detto, anche le diagnosi di ADHD hanno un ruolo non piccolo, ma esse sfociano per lo più in un nulla di fatto (non sono quasi mai abbastanza gravi da soddisfare i limiti assai restrittivi per il sostegno) o, peggio, nel ricorso a farmaci stimolanti come il Ritalin.

    8 Che fare ? Cambiare la scuola per fermare il suo declino

    8.1

    Prima di tutto occorre ristabilire un principio di fondo che rischia di essere completamente disatteso: l’integrazione delle differenze sia come prassi sia come allocazione di risorse umane aggiuntive non risponde a principi medici psichiatrici ma essenzialmente a principi pedagogici. Chiedersi quante insegnanti compresenti sono necessarie per svolgere un buon lavoro in una classe è una domanda pedagogica che richiede una risposta pedagogica, non medica o psichiatrica. Allo stesso modo, chiedersi qual è la miglior mediazione didattica possibile per favorire l’apprendimento della matematica di un particolare bambino o classe di bambini è  anch’essa una domanda pedagogica, non medica e non psichiatrica.

    8.2

    Occorre che la scuola si doti di un repertorio di buone prassi pedagogiche per l’integrazione delle differenze e la buona mediazione didattica. Questo repertorio potrebbe essere organizzato anche su una piattaforma digitale con una logica collaborativa di tipo Wiki che coinvolga l’intelligenza collettiva di tutti coloro che, da docenti e dirigenti, vogliono contribuire alla costruzione di questo repertorio.

    8.3

    Di fronte alle crescenti diversità e difformità che caratterizzano la popolazione scolastica attuale, si deve mettere in opera un altro cambiamento che si sta rivelando cruciale per la salvezza della scuola come istituzione autorevole: considerare con l’occhio della normalità bioevolutiva la quantità e la qualità di richieste comportamentali e cognitive indirizzate ai bambini che siedono a scuola oggi, comparandole anche con il sistema complessivo di vita che li circonda e li coinvolge.

    8.4

    La scuola dovrebbe contrastare con ogni sua forza migliore il diffondersi di insegnanti-diagnoste che appongono etichette psichiatriche a tutto andare e talvolta addirittura stilano su fogli di carta liste di test da effettuare a determinati alunni, test che spesso, se effettuati, risultano poi pienamente normali. Ogni volta che l’insegnante dice “questo bambino ha qualcosa” (intendendo una qualche patologia cognitiva o emotiva) è come se la docente stesse dicendo “questo bambino non mi riguarda”.

    8.5

    Infine, riprendendo il principio iniziale, occorre capovolgere l’assetto normativo di oggi su un punto cardine: la decisione di incrementare le risorse umane a disposizione di una classe e/o di singoli alunni e/o di prevedere strumenti compensativi/dispensativi è, come si è detto, una scelta pedagogica e non medica, che quindi appartiene alla scuola e non può essere condizionata in alcun modo dalla presenza di diagnosi esterne o attestazioni di invalidità. Essa dipende da considerazioni interne al lavoro e alla specificità scolastica, e può derivare da aspetti rilevati nel singolo alunno ma anche da caratteristiche particolari di un certo gruppo-classe.

    Ritengo che in assenza di un serio mutamento nelle direzioni sopra indicate, la scuola italiana sia destinata a un inesorabile declino, peraltro già iniziato da tempo.
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  • Lasciateli giocare

    Lo psicologo Peter Gray afferma in un suo articolo: “oggi i bambini non hanno più tempo per giocare tra di loro. La vita a scuola e nel tempo libero è gestita e organizzata dagli adulti. Ma solo giocando possono acquisire le abilità sociali che gli serviranno da grandi: ascoltare gli altri, essere creativi, gestire le emozioni e affrontare i pericoli. […] Da più di cinquant’anni gli statunitensi continuano a ridurre le opportunità dei loro figli di giocare, e lo stesso sta succedendo in molti altri paesi. Durante lo stesso periodo i disturbi mentali infantili sono aumentati. Negli Stati Uniti i questionari clinici usati per misurare i livelli di ansia e di depressione dei ragazzi in età scolare non sono cambiati dagli anni cinquanta. E l’analisi dei risultati rivela un aumento continuo dell’ansia e della depressione, tanto che dagli anni cinquanta a oggi quelli che potremmo chiamare disturbi d’ansia generalizzata e forti depressioni sono aumentati dalle cinque alle otto volte.”

    Anche nel nostro Paese si evidenzia, fin dalla scuola dell’infanzia, la perdita di un orizzonte di libertà e spontaneità come base dei comportamenti costruttivi del bambino e poi dell’adolescente. Quando questo costituente di base va perduto, si assiste a una proliferazione di distruttività e oppositività anche gratuite. Il bambino, ad esempio, che non è stato libero di disegnare spontaneamente all’interno della relazione educativa, finisce col ribellarsi, una volta cresciuto, a qualsiasi richiesta normativa successiva. l’esempio potrebbe essere esteso ad altri ambiti.

    Più che una carenza di regole, sulle quali ormai generazioni di docenti di ogni ordine e grado si sono sforzati di intervenire senza successo, sembra che ciò che affligge la scuola oggi sia l’atrofia della relazione e degli spazi di libertà-spontaneità, che costituiscono gli orizzonti di senso entro i quali è possibile chiedere e ottenere il rispetto delle regole. Questa atrofia non è appannaggio della scuola, beninteso, ma riguarda la gran parte del tempo di vita dei nostri bambini. Passano ore e ore a scuola (molte di più dei loro padri e madri) e all’uscita vengono portati in altri luoghi dove trovano altri adulti che strutturano e disciplinano le loro azioni. Se un bambino è irrequieto a scuola, o “non sta alle regole” (e di solito le regole si riducono a una sola: obbedire), ecco che subito consigliamo i genitori di portarlo a fare uno sport di squadra possibilmente con allenatore severo che gli insegni… a rispettare le regole cioè a obbedire. A casa, genitori colpevolizzati da tanti messaggi più o meno indiretti si sforzano di “dare regole” ai loro bambini scoprendo che… non ce la fanno, né loro, né, soprattutto, i figli. Fermiamoci, prima che sia troppo tardi.

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  • Fermiamo la pedofollia

    Fermiamo la pedofollia

    Franco Nanni

    Le lenzuola bagnate
    e la paura
    del buio
    lo sguardo
    spaventato e la domanda:
    mi vorrai bene
    anche se prendo cinque?
    (Aino Suhola)

    1. La pressione temporale

    La mamma sveglia il suo bambino e gli dice di far presto. Deve vestirsi, far colazione, andare in bagno e prepararsi a uscire. Poco dopo la mamma si dispera perché è già ora, ma il bambino è ancora seduto sul water. Gli urla di far presto. Escono e corrono a scuola. La mamma guida veloce poi scendono e gli dice di camminare in fretta. Il bambino entra in classe e probabilmente gli verrà detto di sbrigarsi a sedersi e estrarre il materiale per la lezione. Più tardi il bambino copierà qualcosa dalla lavagna, poi ci sarà un dettato, poi una scheda di lavoro da eseguire su un libro o incollata al quaderno. In tutte queste attività sarà sempre misurato il tempo che impiega, gli verrà fatto notare di essere stato lento, di essere rimasto indietro, di non aver concluso la scheda che dovrà portare a casa e terminare entro domani. Poi arriverà la ricreazione: solo se è fortunato sarà abbastanza lunga da poter mangiare qualcosa, giocare, andare in bagno e fare tutto questo senza fretta. Se non è fortunato dovrà fare queste cose affettandosi e forse dovrà rinunciare a qualcuna. Naturalmente parliamo dei primi anni delle elementari, perché in seguito, anno dopo anno, la ricreazione si ridurrà a 10 minuti in tutto, spesso perfino abbreviati perché l’insegnante dell’ora precedente doveva assolutamente finire di dettare un compito, un testo, qualcosa… E si è anche adirata perché i bambini avevano fretta di fare ricreazione. E che diamine, quanta fretta. E comunque durante quei minuti di libertà la maestra osserverà i bambini: se socializzano, se si muovono troppo o troppo poco, se sono dispersivi o isolati.
    Che il bambino mangi a scuola o a casa, dovrà fare in fretta. Non ci si distrae, quando si mangia, bisogna portare a termine il lavoro di deglutizione con solerzia e rapidità. Anche perché dopo ci sono tante cose da fare. Da fare in fretta. Se il bambino resta a scuola il pomeriggio, continuerà a lavorare e di nuovo si sentirà dire che è lento, che è distratto, che non finisce in tempo le cose. Poi forse andrà al post-scuola. Si potrebbe pensare che i bambini abbiano più voglia di tornare a casa dai genitori, ma spesso desiderano restare al “post”. Io credo che dipenda dal fatto che è una delle poche parti della giornata in cui nessuno gli fa fretta.
    A seconda degli orari e delle giornate, il bambino potrebbe avere altri impegni, nuoto, calcio, inglese, musica, danza hip-hop. Bisognerà fare in fretta ad andare, che l’allenatore (istruttore, docente…) non aspetta. E prima o dopo gli impegni c’è l’invasione barbarica dei compiti e dello studio, sempre ingenti, lunghi, pletorici, ma sempre apostrofati dalle maestre come “quattro sciocchezze, cosa vuoi che sia, si finiscono in un attimo”. E allora bisogna fare in fretta. Oltre ai compiti c’è magari la scheda del mattino: a scuola, che pigrone!, non ha terminato. E c’è da fare la doccia, rigorosamente quotidiana, e in fretta che l’acqua non si deve sciupare. Alla sua età la mia generazione faceva un bagno alla settimana, e di acqua se ne sciupava meno. E si sciupava meno tempo a lavarsi: quanti genitori sono infastiditi perché il bambino non vuole lavarsi, la sera. Ogni sera, ogni santa sera che Dio manda in terra.
    La sera dopo cena gli verrà mostrato l’orologio sulla parete: “è tardi, è ora di andare a letto”. Bisogna fare in fretta anche quello, i denti, il bidè, il pigiama. Bisogna dormire in fretta perché domani comincia un altro giorno da fare in fretta.
    E nei giorni di vacanza? Orrore! La maestra e anche tanti genitori cominciano ad avere tachicardia e respiro corto all’idea che il bambino possa vivere un poco di tempo liberato dalla pressione temporale e, come vediamo tra poco, dal principio di prestazione. La masturbazione non è più un peccato, ciondolare sì.

    2. Principio di prestazione

    Se riguardiamo la giornata del bambino appena raccontata, ci accorgiamo che questi non fa quasi nulla che non sia soggetto al principio di prestazione: quello che fa viene misurato e valutato, sempre, comunque e dovunque. Tranne al post? Sì… E no. Perché anche lì il suo comportamento viene valutato, per quanto non formalmente con voti e giudizi. Per non parlare delle attività extrascolastiche, tutte sottoposte al principio di prestazione, tranne forse alcune di natura più ludica, dove comunque esisteranno i bravi e i meno bravi. Nessuna di queste attività è comunque libera né autogestita: c’è sempre almeno un adulto che comanda e dice cosa fare, e all’occorrenza sgrida gli indisciplinati.
    Qualcuno potrebbe obiettare che restano comunque spazi aperti… Lo spero anch’io ma il quadro va completato: il bambino potrebbe giocare con una consolle da videogiochi (Playstation, Xbox, ecc.) e lì, almeno in apparenza, dovrebbe solo divertirsi. Ma i livelli del gioco, i punteggi, le vittorie e le perdite sono ovunque, e molti genitori sono preoccupati vedendo le crisi di rabbia del loro bambino quando perde ai videogiochi. Un altro bambino andrà al parco e forse giocherà un poco liberamente. Ma altri occhi vigili (di papà e mamme) guarderanno se il bambino socializza, o se è aggressivo, emotivo o timido, tre etichette non propriamente positive.
    In altri termini il comportamento di un bambino è sottoposto quasi 24 ore per 7 giorni a qualche forma di principio di prestazione o di disciplina. Il bambino migliore socializza facilmente, è veloce nel capire, nel fare i compiti, nell’igiene personale, e soprattutto sta alle regole. Una parola obsoleta a mio parere suonerebbe meglio: obbediente. Perché quando ricevo lamentele su bambini che “non stanno alle regole” chiedo sempre di spiegarmi quali regole essi trasgrediscano, e quasi sempre la regola è una sola: obbedire all’adulto di turno, genitore, insegnante, allenatore, istruttore, catechista…

    3. Prima è meglio

    Oltre alla pressione temporale quotidiana, che agisce a breve termine, i bambini ne ricevono un’altra, a scadenze diverse: l’età a cui iniziare a fare, o imparare a fare qualcosa. Qui il principio è il titolo del paragrafo: “prima è meglio”. Il pannolino tolto a un anno e mezzo è meglio che a tre. Saper leggere a quattro anni è meglio che a sei. E a sei, è meglio scrivere in tutti i caratteri già a Natale, che sennò Babbo Natale non può leggere la letterina e non porta i regali. La regola che “prima è meglio” seguirà il bambino per lo meno in tutto il suo percorso scolastico dell’obbligo: il programma che trent’anni fa si faceva in prima media ora si fa in quinta elementare, se non prima. E così via. Ne soffre, credo, soprattutto la matematica; si sa, la qualità dell’apprendimento della matematica in Italia è in crisi, ma i geni assoldati dal ministero non trovano di meglio che anticipare ancora i programmi, non rendendosi conto che quella è la causa del problema, e non la soluzione.
    Non restano immuni da questa regola nemmeno le altre attività dei bambini: studiare musica a un anno? Perché no? Imparare la filosofia o la trigonometria a tre anni? Perché no? Fare danza hip-hop a quattro anni? Il pattinaggio agonistico a sei? L’hockey su ghiaccio a cinque? Perché no? Eppure, quando qualcuno ci dice: “fare sesso con bambini? Perché no?” giustamente ci scandalizziamo inorriditi. Ma questo fare tutto così presto, non è in fondo un modo di essere diversamente pedofili?

    4. Fermiamo la pedofollia

    Qualcuno si è mai chiesto cosa possa comportare, in termini di salute mentale, un sistema di vita del genere applicato a tutte le età inclusa quella evolutiva? Ansia, somatizzazioni ansiose, insonnia, depressione, disturbi digestivi e alimentari, demotivazione, oppositività, non sono forse disturbi diffusissimi tra i bambini e gli adolescenti? Ogni tanto un insegnante tra gli altri mi chiede: ma cosa sta succedendo? Perché sono tutti così malconci? Spero, con questo articolo, di aver dato un contributo alla riflessione.

    by-nc-saQuest’opera di Franco Nanni è stata rilasciata con licenza Creative Commons Attribuzione – Non commerciale – Condividi allo stesso modo 3.0 Italia.