Tag: lutto in adolescenza

  • Docenti in classe dopo un lutto

    Purtroppo non è impossibile morire a 13 anni, per cause certamente non naturali ma dovute principalmente a incidenti e malattie. In altri casi a 13 anni si incontra la morte di una persona cara: un genitore, un nonno, ma anche un fratello, un cugino, coetaneo o adulto che sia. La scuola è quasi inevitabilmente teatro di una parte di questo dramma, e l’insegnante che si trova a contatto con questi eventi e con i vissuti che li accompagnano incontra momenti di dubbio, di paura della propria adeguatezza a contenere e accompagnare le emozioni che possono emergere in questi casi.

    Temo non ci siano letture né metodologie che davvero possano guidare univocamente il docente in una situazione così forte. Ci si può attendere che i ragazzi, ritrovatisi in classe dopo l’evento luttuoso, avvertano il bisogno almeno inizialmente di parlare dell’accaduto, sia pur in modo confuso e magari caotico. Tuttavia questa non è l’unica reazione possibile né necessariamente la più probabile. Spesso accade che emergano anche spinte verso la rimozione, tese a soddisfare il bisogno di non pensarci o di pensare ad altro, fino a fare battute e ridere pur di allontanare lo spettro della morte e del lutto. L’idea della morte a 13 anni è spesso talmente intollerabile da generare reazioni di difesa che possono sbalordire o amareggiare l’adulto. Condotte di questo tipo non vanno condannate ma comprese perché in questa fascia di età il contatto con la morte è paragonabile a quello con una sostanza tossica, dove il bisogno di fuga è quindi talvolta fortissimo. La fuga non deriva da cinismo o insensibilità, ma da una difesa estrema di un genere di persone, i tredicenni di oggi, completamente indifeso e impreparato ad affrontare il lutto e la perdita, perfino in casi in cui si tratta di una morte naturale di persone molto anziane; la morte di un coetaneo risulta a maggior ragione altissimamente allarmante per loro. È comunque un bene che i ragazzi possano parlare, mentre l’atteggiamento di fuga va accettato senza condanne né stigmatizzazione ma certamente non incoraggiato perché è una strategia molto immatura ancorché talvolta l’unica pensabile per loro. Fra il “non stigmatizzare” e il “non incoraggiare” si colloca una gamma di azioni del docente estremamente articolata ma non traducibile in “istruzioni per l’uso”. Alla base di tutto sta l’attenzione al contesto del momento: chi è la persona che manifesta impulsi di fuga o negazione (ad es far battute di spirito, cercare di far ridere, disturbare)? Cosa si legge nei volti degli altri di fronte al suo intervento? Fastidio? Favore? Si può introdurre l’idea che parlare di argomenti dolorosi può risultare insopportabile a qualcuno, ma questo non lo autorizza a impedire ad altri di farlo.

    Da parte degli alunni più evoluti possono scaturire spunti per riflessioni importanti su come porsi di fronte a una vita che può interrompersi all’improvviso e che manifesta chiaramente, e brutalmente, di non essere eterna. Se queste riflessioni emergono (forse non subito, ma nei giorni successivi) l’occasione va a mio parere raccolta per sviluppare temi assai importanti nella formazione della persona. È possibile però che il livello di queste riflessioni sia assai altalenante, e talvolta del tutto irraggiungibile da una parte della classe, che potrebbe restarne fuori o, anche, fare boicottaggio attivo. Appare ovvia la necessità di tentare di coinvolgere tutti almeno nei temi essenziali.

    Tra le reazioni dell’immediato non è da escludere la richiesta di fare lezione normalmente, che va anch’essa interpretata come tentativo di allontanare i pensieri dolorosi e intollerabili.

    C’è ancora un genere di reazione possibile e tutt’altro che rara: la rabbia. Non mi riferisco alle situazioni traumatiche dove può essere individuato un colpevole (ad esempio l’investitore ubriaco al volante), dove l’ira ha un destinatario, una direzione e realistiche motivazioni, ma a una rabbia viscerale, assoluta, senza appigli alla situazione concreta. Il suo nucleo di base, ancestrale, può essere identificato nella rabbia abbandonica, ovvero la forte reazione del neonato o dell’infante all’allontanamento della madre (che può avere un corrispettivo più “tecnico” nella protesta per la separazione), e per estensione la rabbia di chi si sente abbandonato da un partner o da un amico. È intuibile, nei congiunti di persone decedute, quanto possa essere complesso albergare in sé rancore abbandonico verso la stessa persona di cui si piange la dipartita. Nei preadolescenti oltretutto questa reazione di rabbia può diventare funzionale alle difese contro il dolore della perdita, diventando una sorta di antidepressivo endogeno, il che porta al rischio di cronicizzazione. Vediamo allora tredicenni che hanno perso un congiunto o un coetaneo incorrere, nei mesi successivi, in ripetuti passaggi all’atto che vanno dall’aggressività al bullismo passando per cronici problemi di condotta nella forma di rabbia sorda nei confronti dell’adulto in genere o del docente.

    Quando gli insegnanti si trovano a gestire una classe nelle giornate immediatamente successive a un evento luttuoso che ha interessato uno dei membri o l’ambiente sociale circostante, gli scenari probabili sono dunque assai variegati, e le reazioni individuali e collettive all’accaduto possono essere facilmente contrastanti e talvolta opposte, passando dal bisogno di parlarne al rifiuto di parlarne o alla negazione. Che fare in questi casi di richieste contrastanti all’interno della classe? Credo si debba cercare semplicemente  di essere lì presenti con tutti e cinque sensi aperti e cogliere i diversi momenti dei bisogni dei ragazzi mediando eventualmente tra gli atteggiamenti contrapposti. La “bussola” di questa mediazione dovrebbe essere orientata verso l’accrescimento della capacità di pensare e di soffrire, con rispetto verso gli impulsi di fuga e negazione, ma senza colludere con essi.

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