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  • Nido e Scuola Infanzia, troppo presto, troppo a lungo, troppo…

    SoffioniLa nostra società si è gradualmente abituata a considerare naturale che bambini di 6, 7, 8 mesi trascorrano 7, 8, fino a 10 ore fuori casa all’interno di una struttura “educativa”, dove la parola educativa merita necessariamente le virgolette in quanto risulta davvero incomprensibile cosa ci possa essere di educativo per un bambino di sette mesi al di fuori del contatto e dello scambio affettivo con i propri familiari. Naturalmente sembra a molti ancora più naturale che una vita del genere venga condotta dei bambini nella fascia 3-6 anni, cioè fino alla fine della scuola dell’infanzia. Della età giusta per il nido, ammesso che esista, abbiamo già parlato qui.

    A costo di apparire impopolare vorrei proporre alcune riflessioni a partire dai bisogni dei bambini, cosa della quale pochi sembrano davvero interessarsi operativamente.

    • Il bambino dalla nascita è predisposto a essere accudito da figure adulte stabili, verso le quali sviluppa attaccamento, un insieme complesso di motivazioni, emozioni e cognizioni, le cui principali manifestazioni sono la ricerca di vicinanza e la protesta per la separazione.
    • Da questo rapporto con adulti (figure di attaccamento) derivano risorse per un adeguato sviluppo affettivo, emotivo e cognitivo, che vanno dal linguaggio al senso di sé, dalla capacità di regolare le proprie emozioni e i propri impulsi all’orientamento spazio-temporale, fino alla capacità di aspettare, di conoscere e di esplorare. È dall’adulto che il bambino apprende (per contatto) i turni del parlare, la reciprocità, i confini io-tu… E infinite altre sfumature essenziali per un armonico sviluppo.
    • Il gioco con i pari età è, almeno fino ai tre anni, un gioco parallelo e affiancato, ma è solo negli anni successivi diviene cooperativo, reciproco, co-gestito, dunque autentica risorsa educativa.
    • È nel libero movimento corporeo che il bambino sviluppa il sè-corpo e le consapevolezze spaziali, quindi in un movimento protetto (ma non controllato o imposto) dall’adulto, al solo fine di evitare pericoli. La disciplina del corpo e del movimento inizia necessariamente dopo, quando possono essere utilizzate dal bambino risorse interne di autocontrollo.

    Se abbiamo ben presente tutto questo, allora diventa naturale fissare alcuni principi di base, quasi una dieta del buon vivere del bambino. E, come tutti sanno, una buona dieta deve essere varia. Tracciamone le caratteristiche ideali:

    • 0~12 mesi (o comunque fino all’inizio della capacità di camminare), a casa e all’aperto con mamma e papà; va bene il contributo non predominante di eventuali figure accessorie (parenti prossimi o baby sitter stabili). Sonno vicino a mamma. Allattamento seno esclusivo a richiesta (0~6) e auto-svezzamento (6~12) con proseguimento del seno e graduale interruzione (per chiarezza, la OMS afferma che non ci sono evidenze di effetti negativi del prendere il seno come complemento anche fino a tre anni di età).
    • 12~24 mesi, valgono le linee precedenti, ma con maggiore flessibilità, maggiore esplorazione di spazi aperti, possibile maggior apporto di figure accessorie preferibilmente stabili. (Diverse ricerche hanno dimostrato che maggiore è il numero e la variabilità di figure di riferimento nella primissima infanzia, maggiore il rischio di problemi comportamentali e emotivi in seguito). In questa fase il nido sarebbe da evitare; se proprio necessario, allora meglio assolutamente part time, cioè solo mattina e con un inserimento molto graduale e lento. Vacanze rigorosamente con i genitori.
    • 24~36 mesi, o comunque entro inizio scuola dell’infanzia: sostanzialmente restano valide le linee guida del periodo precedente, ma con maggiore apertura e tempi più tranquilli di permanenza con persone note che non siano i genitori, oppure il Nido, ma sempre comunque part time! Questa può essere la fase di consolidamento del rapporto con i nonni, se presenti. Meglio però, sotto i tre anni, evitare di far fare ai bambini vacanze lunghe (oltre 5/7 giorni) soli con i nonni. I bimbi più tranquilli e sereni possono, senza fretta, iniziare a dormire da soli.
    • Dai 3 ai 6 anni: ovviamente ha inizio per tutti la scuola dell’infanzia, ma altamente consigliabile la frequenza 8~13 approssimativamente, necessaria il primo anno. Se non è possibile sempre, va comunque limitata allo stretto necessario. Dormire da soli, la notte a casa, è un buon traguardo per questa età, ma alcuni bimbi sono ancora bisognosi di contatto; non facciamogli fretta.
    • Durante la fase 3~6 anni la “dieta” ideale comprende:
      • Mattino all’asilo
      • Pomeriggio a casa, sonnellino, e relazione con un adulto, esclusiva (1:1) o con fratelli/sorelle, massimo cuginetti, in modo che la relazione con l’adulto sia predominante rispetto a quella con i bimbi. In questo tempo è importante un buon equilibrio tra libertà motoria e esplorativa e limiti chiari e fermi dati al comportamento dei bambini.
      • Tardo pomeriggio (se non prima) ricongiungimento coi genitori fino a sera/notte.

    Per chiarezza: queste linee guida non sono state stese per colpevolizzare o accusare nessuno. Non siamo nati ieri e sappiamo tutti quanto sia difficile stare in mezzo tra le esigenze dei bambini e un mondo del lavoro sempre più rapace, intollerante, ladro di tempo e risorse emotive.

    Al contrario, queste linee guida sono state stese per aiutare chi può a crescere al meglio i propri figli, e per ricordare a tutti di non provare stupore quando al nido o all’asilo osserviamo bambini con significative mancanze nelle capacità di autoregolazione emotiva, nella turnazione del dialogo, nella relazione con l’adulto e con i pari età. Non sono i bambini a sbagliare ma semmai le circostanze in cui sono cresciuti. Dovrebbero essere un monito a riformare e riformulare la vita nella scuola dell’infanzia al fine di aiutare questi bambini squilibrati a ritrovare maggiori risorse auto regolative interne. Per farlo, non hanno bisogno di più disciplina ma di più intense relazioni costruttive con adulti significativi. Dunque per prima cosa, soltanto per cominciare e nulla più, smettiamola con sezioni da 25 bambini con una sola maestra.

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  • I bambini dell’horror vacui

    Una nuova tipologia di bambini in arrivo? No, solamente “normali”

    Se rivolgiamo l’attenzione alla scuola primaria, ma con uno sguardo attento anche sul triennio della scuola dell’infanzia, possiamo osservare che le classi si stanno gradualmente popolando di una tipologia di bambino che potremmo provvisoriamente denominare “disorganizzato” con una definizione volutamente vaga, e che, per evitare ulteriori etichettamenti, chiameremo semplicemente “D”. Voglio chiarire fin da ora che il bambino D non è affatto una nuova categoria di bambini: ne sono state già aggiunte fin troppe e i genitori in pena non fanno altro che vagare sul Web alla ricerca dell’etichetta giusta da mettere sui loro bambini difficili (e ne trovano a iosa). Quando parlo di “bambino D” mi riferisco prima di tutto a una grande varietà di individui accomunati soltanto da un nucleo comune di esperienze, di modalità di relazione e di organizzazione delle capacità e delle emozioni. Le componenti di quel nucleo comune sono anch’esse variabili tra soggetto e soggetto. Si tratta in altri termini non dell’ennesimo bambino speciale ma del genere di bambino che si sta avviando a divenire normale o medio.

    Il bambino D si caratterizza soprattutto per avere non bisogni speciali, bensì bisogni normali ma disattesi: a puro titolo di esempio, aveva bisogno di accudimento e presenza ma è stato inserito troppo precocemente in strutture educative, aveva bisogno di tempo per maturare e apprendere ma è stato sollecitato a produrre performance che non era ancora in grado di dare… Ha bisogno di spazi aperti e movimento spontaneo ma passa ore e ore al chiuso e fermo. Ha vissuto i primi anni di vita in modo disarmonico, con troppe figure di riferimento e troppi cambiamenti; prevalentemente in ambienti piccoli e chiusi, in strutture governate da adulti, tanto che le esperienze motorie spontanee ne escono massimamente sacrificate, a favore, spesso, di un uso/abuso di mezzi tecnologici che partono dalla semplice televisione per arrivare al tablet e alla consolle per videogiochi. Il bambino D è un bambino sovrastimolato, per di più in modo assai sbilanciato, con eccessi e carenze in aree diverse, ovvero, tipicamente: troppi stimoli verbali e cognitivi, pochi o troppo settoriali quelli relazionali e corporei, disfunzionali quelli specifici dell’attaccamento.

    Volendo rappresentare il tutto con un esempio ricavato dall’alimentazione, potremmo dire che il corpo umano estrae i nutrienti di cui abbisogna da tutti gli alimenti che vengono introdotti, ed è il corpo stesso a selezionare di volta in volta quello che gli serve. Se la dieta è sufficientemente variata possiamo dire che vengono soddisfatti complessivamente tutti i bisogni nutritivi, ma se essa diviene troppo ristretta, sbilanciata o scarsa, il corpo non trova più tutto il necessario e possono crearsi disfunzioni, patologie o altri disturbi. Fuor di metafora, la dieta di esperienze relazionali, corporee e emotive di un bambino medio di oggi è contraddistinta da squilibri e disarmonie con significative carenze e eccessi tali per cui la costruzione progressiva e intrecciata delle varie intelligenze e delle funzioni esecutive può mancare di parti rilevanti. Quando poc’anzi ho affermato che questa tipologia di bambini ha bisogni normali ma disattesi mi riferisco proprio al fatto che le condizioni in cui essi si sviluppano rischiano di essere, e talvolta sono troppo lontane dalle aspettative di cui il sistema nervoso umano è portatore. La grande flessibilità che ci contraddistingue ha portato a considerare infinite o quasi le possibilità di adattamento del bambino al suo ambiente di crescita, ma ciò non corrisponde al vero: per quanto flessibili, le capacità di adattamento dei nostri cuccioli hanno dimensioni finite. Esiste quindi una normalità bioevolutiva entro la quale si collocano i bisogni normali ma disattesi dei bambini D. Quando ci si allontana troppo da essa si verificano carenze e disarmonie, il cui risultato più tipico è un bambino intelligente (nella norma o sopra), effervescente e curioso, ma disorganizzato, assai carente nelle capacità di contenere gli impulsi, di dirigere le proprie azioni, di esser contenuto dalla parola dell’adulto. Un bambino che non è portatore di alcuna patologia propriamente detta, ma che è “antropologicamente” inadatto alla vita scolastica tradizionalmente intesa, a causa dei suoi tempi di attenzione brevi, della sua ricerca continua di stimoli, della sua intolleranza all’attesa e al vuoto, del suo spasmodico bisogno di attenzione esclusiva da parte dell’adulto, nella aurorale consapevolezza che non può svilupparsi in modo congruo senza di essa. Egli sconta in qualche modo la sua propria disorganizzazione nelle varie aree:

    • Disorganizzazione motoria, per aver vissuto troppo a lungo sballottato da un ambiente chiuso all’altro, in automobile, in passeggino, senza poter esplorare l’ambiente fisico con il proprio corpo. Al massimo, egli riceverà un addestramento formale in uno specifico sport dove potrà perfino eccellere sotto lo sguardo fiero di mamma e papà, ma continuerà a conoscere il proprio corpo non come fenomeno vitale emergente, ma soltanto come strumento.

    • Disorganizzazione affettiva, per aver subìto distacchi troppo precoci e lunghi dalle figure di attaccamento. Non riesce a fidarsi davvero dell’adulto, non riesce a costruire un rapporto significativo con esso al di fuori della famiglia e spesso anche all’interno di essa. Vive una incolmabile ansia per la separazione, piange a lungo al distacco entrando a scuola o rifiuta di entrare. Cerca disperatamente il contatto con l’adulto al momento del dormire. Oppure abbandona la speranza dell’attaccamento e vive in una dimensione di superficie e di evitamento del legame, diventando un iperattivo “amico di tutti” e dunque in fin dei conti di nessuno.

    • Disorganizzazione attentiva, per carenza di tutte quelle esperienze stratificate che portano a maturazione i circuiti neurali preposti all’attenzione (scambi affettivi con la madre, scambi verbali, ostensione e presentazione degli oggetti da parte dell’adulto, relazioni significative e orientate da una figura-guida, esperienze motorie spontanee, gioco libero… E tanto altro). Essi sono quasi sempre squilibrati nel focus dell’attenzione: completamente assorbiti da sé stessi e da stimoli interocettivi e egosintonici, o viceversa iper-vigili verso l’ambiente in modo non selettivo (con conseguente alta distraibilità). Per molti bambini D l’unico stimolo in grado di orientare e focalizzare a lungo l’attenzione è costituito da quei potentissimi dispositivi elettronici (con relativi raffinatissimi software) chiamati videogiochi. Attaccati alla consolle (Playstation, Xbox, ecc.) o al tablet, certi bambini possono erogare livelli di attenzione sostenuta impensabili in altri contesti.

    • Disorganizzazione delle autonomie, per aver vissuto una miscela sbilanciata di iper protezione e spinte anticipate al far da sé, miscela spesso ritagliata esclusivamente sui bisogni concreti e affettivi del genitore.

    • Disorganizzazione del rapporto emotivo e cognitivo con sé stessi. Questi bambini operativamente “non sanno chi sono”. Le precedenti forme di disorganizzazione, sommate insieme, generano un individuo incapace di “esserci”. Il suo corpo è rimasto due volte svuotato, dapprima del contatto pelle a pelle prolungato e rassicurante, in seguito della sana esperienza spontanea dell’esplorazione motoria. Ne risultano appetiti variamente insaziabili in uno o in entrambi i campi. Abitano corpi vuoti e sconosciuti, questi bambini dell’horror vacui, continuamente affamati di stimoli esterni che non sanno interiorizzare né far durare. Il disconoscimento del corpo, affettivo cognitivo e percettivo, porta spesso a fenomeni crescenti dello spettro ansioso e ipocondriaco.

    Immaginare classi formate solo da bambini disorganizzati oltre che spaventoso è anche fuorviante: prima di tutto perché le caratteristiche di disorganizzazione descritte possono variare molto per intensità e per dosaggio complessivo, creando situazioni personali sfumate, mutevoli e in definitiva uniche. In secondo luogo queste caratteristiche si vanno a sommare algebricamente ad altre variabili personali, che spostano gli equilibri individuali sia in direzione della resilienza e della adeguatezza che in direzione opposta, verso anomalie importanti fino alla patologia, o a quella pseudo-patologia sovradiagnosticata denominata ADHD (Disturbo da Deficit di Attenzione e Iperattività). Si tratta in realtà di una mera sindrome, o ancor meglio di un aggregato variabile di sintomi dalla eziologia vaga, molteplice e confusa, come ammise candidamente lo stesso psichiatra Leon Eisenberg, che per primo quaranta anni fa codificò l’ADHD, in una sua intervista al settimanale tedesco Spiegel: “L’ADHD è il primo esempio di malattia fittizia” e ancora: “La predisposizione genetica per l’ADHD è completamente sopravvalutata”.

    Nella mia esperienza concreta di psicologo nella scuola credo di poter affermare che il bambino fortemente disorganizzato è ancora largamente minoritario: potremmo approssimarlo grossolanamente a meno di un individuo ogni venti, dunque al di sotto del 5o centile. Se spostiamo invece l’attenzione verso bambini variamente disorganizzati, che presentano solo alcuni tratti o anche tutti ma in grado lieve, allora le proporzioni cambiano e arrivo a immaginare che questa tipologia di alunno non solo rientri già assolutamente nella norma, ma che gradualmente finisca con l’occupare la zona centrale e maggioritaria.

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  • Le verità scomode sul disagio infantile

    L’esperienza accumulata in questi anni di attività di sostegno alla genitorialità ha evidenziato diversi aspetti della vita dei bambini che tendono a ricorrere spesso, o addirittura nella quasi totalità dei casi tra i dati anamnestici. Essi vengono rilevati attraverso una intervista ai genitori che ricostruisce i principali aspetti del loro percorso nel crescere i figli. Intervenire su questi aspetti sarebbe oggi forse l’unica pratica di prevenzione dotata di un fondamento razionale e empirico vasto e documentato. Vale la pena allora rivederne rapidamente una sintesi, elencando le problematiche riferite dai genitori stessi:

    • È quasi una costante la presenza nei figli e/o nei genitori di piccole o grandi incrinature nelle vicende dell’attaccamento; spesso, ma non sempre, questi aspetti vengono riferiti senza la minima consapevolezza che si tratti di condizioni effettivamente critiche.
    • Il test sull’attaccamento somministrato ai figli e talvolta ai genitori conferma da parte sua la presenza di stili di attaccamento non sicuri in una larghissima maggioranza di casi.
    • Tra le condizioni meno frequenti che possono anche contribuire ad attaccamenti disturbati, ma che hanno un loro statuto autonomo, una delle più ricorrenti è quella delle difficoltà sanitarie (anche del tutto superate) collocate nel concepimento, o in gravidanza, o in area perinatale/postnatale.
    • Non sono rare complicanze dovute a condizioni depressive di madri e padri, in atto o pregresse; tra queste ultime ha un certo ruolo la depressione post partum; importante aggiungere che non sempre essa è stata riconosciuta come tale e trattata in qualche modo.
    • Non sono rare le madri che riportano difficoltà nell’allattamento al seno; bambini “pigri” che non si attaccano, o che succhiano poco, il latte che “non c’era” o “era poco nutriente”. In questo scenario è del tutto ovvio che molto spesso faccia la sua comparsa la cosiddetta aggiunta, ovvero un biberon di latte artificiale che dovrebbe integrare una alimentazione che si ritiene povera.
    • In una schiacciante maggioranza di casi viene riportato che il bambino “ha sofferto di coliche gassose”. Talvolta però il racconto dettagliato riporta soprattutto lunghe crisi di pianto inconsolabile, dovute presumibilmente alle coliche; potrebbe in questi casi trattarsi di un bambino iperresponsivo (che reagisce cioè agli stimoli corporei e ambientali in modo più intenso della media) ad alto bisogno e difficilmente consolabile, unito, magari, a una difficoltà del genitore a contenerlo in modi appropriati.
    • Le difficoltà di sonno in età molto precoce sono assai frequenti ma non ubique.
    • Ai due gruppi precedenti fa da contraltare una minoranza non esigua di bambini che da neonati sono stati iporesponsivi (che reagiscono cioè agli stimoli corporei e ambientali in modo meno intenso della media), molto ritmici e regolari nell’alimentazione e nel sonno, che quindi nei primissimi anni di vita sono stati particolarmente “facili” da crescere, ma facili anche da dimenticare, riducendo via via le interazioni, i giochi sociali e le cure accuditive che il bambino non sembrava chiedere, essendo uno di quei bimbi che “par quasi di non averlo” oppure “dove lo metti sta”.
    • I luoghi del sonno, come già esposto, tendono agli estremi: gli agitati finiscono col diventare dei cosleeper tardivi e ostinati, gli iporesponsivi e ritmici vengono precocissimamente abituati al sonno solitario in modo (spesso solo apparentemente) indolore.

    Ho voluto disporre in forma di elenco questa serie di problematiche che ricorrono nel passato di tanti bambini giunti al servizio, perché così facendo sembra già impostata una sorta di “lista della spesa” di possibili iniziative di prevenzione del disagio psichico in tutte le età. Tale passaggio è possibile, lecito e razionale in quanto i legami tra gli aspetti elencati e varie forme di disturbi della condotta e di psicopatologia sono ampiamente documentati sul piano statistico.

    Un altro aspetto che testimonia bene la nuova alleanza tra scienza e tradizione riguarda il modo di tenere fisicamente il neonato. Mentre dal moderno in avanti si è spesso teorizzato qualcosa come «non prenderlo in braccio se no lo vizi», i neonati dei nostri progenitori passavano gran parte del tempo addosso alla loro madre, che nel frattempo si dedicava ad altre diverse occupazioni; lo stesso fanno tuttora le donne in molte culture tradizionali di tutto il mondo1. Gli autori di un documentato e ampio studio2 sostengono che i bambini occidentali ricevono invece in prevalenza un accudimento distante sia di giorno che di notte, il che limita le stimolazioni sensoriali, i contatti pelle-pelle e sguardo-sguardo, e anche le vocalizzazioni e gli altri giochi sociali. Il contatto fisico per l’infante è dunque un nutrimento fondamentale sia sul piano psicologico che su quello neurologico3. I bambini che vengono portati addosso da un adulto per almeno tre ore al giorno, piangono tra il 40% e il 50% in meno della media4.

    Ci è parsa quindi naturale l’aspirazione a una completa rifondazione dei nostri concetti di prevenzione del disagio psichico infantile, adolescenziale e adulto. Non è questa la sede idonea per una disamina completa di questa ipotesi, ma, come affermato alla fine del paragrafo precedente, è quanto meno possibile tradurre quanto emerso dalle nostre casistiche in obiettivi possibili per una prevenzione efficace.

    Il primo punto fondamentale non può che consistere nel dare la massima, concreta diffusione e applicazione alle più recenti linee guida fornite dalla Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) e dalla Accademia Americana di Pediatria (AAP) riguardo alle cure neonatali e infantili.


    1 Le fonti sono numerosissime e non possono essere riportate estesamente qui. Per una bibliografia esaustiva si veda Nanni (2006); per una panoramica si veda Eibl-Eibesfeldt (1993).

    2 Cfr. Douglas (2005).

    3 Cfr. ancora Douglas (2005) e anche gli studi citati nella nota successiva.

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    4 Hunziker (1986). Con alcune discordanze e alcune difficoltà di metodo e di comparazione, questa tesi risulta sostanzialmente confermata anche in uno studio più recente (St James-Roberts 2006)

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  • Lasciateli giocare

    Lo psicologo Peter Gray afferma in un suo articolo: “oggi i bambini non hanno più tempo per giocare tra di loro. La vita a scuola e nel tempo libero è gestita e organizzata dagli adulti. Ma solo giocando possono acquisire le abilità sociali che gli serviranno da grandi: ascoltare gli altri, essere creativi, gestire le emozioni e affrontare i pericoli. […] Da più di cinquant’anni gli statunitensi continuano a ridurre le opportunità dei loro figli di giocare, e lo stesso sta succedendo in molti altri paesi. Durante lo stesso periodo i disturbi mentali infantili sono aumentati. Negli Stati Uniti i questionari clinici usati per misurare i livelli di ansia e di depressione dei ragazzi in età scolare non sono cambiati dagli anni cinquanta. E l’analisi dei risultati rivela un aumento continuo dell’ansia e della depressione, tanto che dagli anni cinquanta a oggi quelli che potremmo chiamare disturbi d’ansia generalizzata e forti depressioni sono aumentati dalle cinque alle otto volte.”

    Anche nel nostro Paese si evidenzia, fin dalla scuola dell’infanzia, la perdita di un orizzonte di libertà e spontaneità come base dei comportamenti costruttivi del bambino e poi dell’adolescente. Quando questo costituente di base va perduto, si assiste a una proliferazione di distruttività e oppositività anche gratuite. Il bambino, ad esempio, che non è stato libero di disegnare spontaneamente all’interno della relazione educativa, finisce col ribellarsi, una volta cresciuto, a qualsiasi richiesta normativa successiva. l’esempio potrebbe essere esteso ad altri ambiti.

    Più che una carenza di regole, sulle quali ormai generazioni di docenti di ogni ordine e grado si sono sforzati di intervenire senza successo, sembra che ciò che affligge la scuola oggi sia l’atrofia della relazione e degli spazi di libertà-spontaneità, che costituiscono gli orizzonti di senso entro i quali è possibile chiedere e ottenere il rispetto delle regole. Questa atrofia non è appannaggio della scuola, beninteso, ma riguarda la gran parte del tempo di vita dei nostri bambini. Passano ore e ore a scuola (molte di più dei loro padri e madri) e all’uscita vengono portati in altri luoghi dove trovano altri adulti che strutturano e disciplinano le loro azioni. Se un bambino è irrequieto a scuola, o “non sta alle regole” (e di solito le regole si riducono a una sola: obbedire), ecco che subito consigliamo i genitori di portarlo a fare uno sport di squadra possibilmente con allenatore severo che gli insegni… a rispettare le regole cioè a obbedire. A casa, genitori colpevolizzati da tanti messaggi più o meno indiretti si sforzano di “dare regole” ai loro bambini scoprendo che… non ce la fanno, né loro, né, soprattutto, i figli. Fermiamoci, prima che sia troppo tardi.

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  • Cambiamenti socio-culturali e problemi scolastici

    Introduzione

    Punto primo. Della presa d’atto del mutamento in senso migliorativo e di allargamento delle competenze richieste all’istituzione scuola, non più limitate alla trasmissione di sapere ma considerato luogo di evoluzione e crescita personale.
    La scuola italiana ha vissuto negli ultimi decenni un progressivo, rilevante mutamento di ruoli e funzioni; tale mutamento si è mosso nella direzione di un ampliamento sia dei suoi compiti formativi che, soprattutto, delle aspettative ad essa rivolte. Tale evoluzione si è verificata nell’ambito di un più vasto processo che ha coinvolto l’intera società italiana dal dopoguerra fino a oggi: si è assistito allo sviluppo e alla proliferazione di agenzie formative formali e informali che si sono affiancate a quelle tradizionali, talvolta integrandone le funzioni e completandole, più spesso erodendone l’importanza e l’autorevolezza; mentre le agenzie tradizionali, prima fra tutte la famiglia, ha vissuto a partire dagli anni settanta trasformazioni vistose e profonde, che hanno modificato al suo interno ruoli, regole, tempi di vita e stili educativi. La famiglia normativa ha lasciato il posto alla famiglia affettiva: la prima assumeva un ruolo forte di trasmissione di valori, obblighi morali e civili, laddove la famiglia affettiva mette al primo posto nella relazione coi figli gli aspetti emotivi, un tempo secondari, attraverso lo scambio spesso paritario di supporto, calore e convivialità; l’obbedienza ha ceduto il posto all’affetto, la gerarchia dei ruoli è stata soppiantata da un regime di sostanziale parità e vicendevole sostegno affettivo. Con il progressivo tramonto della distinzione tra sfera privata e pubblica si assiste all’avanzare di una nebulosa di fenomeni talvolta riuniti sotto la denominazione di “familismo amorale”: nel suo rapporto con la società la famiglia si trova più spesso in contrapposizione che non in dialettica continuità, e ciò ha contribuito non poco alle attuali difficoltà nel rapporto tra genitori e scuola.
    Si crea così intorno alla scuola un fenomeno che i sociologi hanno definito “affollamento di aspettative”: sono stati dirottati su di essa oneri, attese e problematiche che la famiglia demanda all’istituzione e che in precedenza non rientravano nel suo campo di azione, creando una situazione non priva di tensioni e di paradossi: nel momento stesso in cui la scuola italiana perdeva lo status di unico, superiore (talvolta elitario) luogo di istruzione e cultura, si è trovata però a vivere una nuova, complessa centralità, poiché nel proliferare caotico di linguaggi, media, agenzie formative e stimoli, è soltanto nella scuola che pare lecito cercare una bussola, una capacità di guida e orientamento consapevole che aiuti a districare il groviglio di messaggi cui le nuove generazioni sono esposte.
    La sfida a cui la scuola italiana è chiamata nel terzo millennio è quella di accogliere creativamente e fattivamente le richieste e le aspettative di cui è fatta oggetto, risolvendole nel senso di una accresciuta e rinnovata competenza. Questo processo di integrazione non può non implicare una rinnovata articolazione di ruoli e professionalità al suo interno. È in questo quadro che si rende necessaria l’introduzione dello psicologo scolastico come figura di sistema all’interno di una scuola che, oltre alle funzioni tradizionali, si è fatta luogo di crescita globale della persona nei suoi aspetti emotivi, relazionali e sociali. Il perseguimento di questo fine richiede non tanto e non solo la trasmissione di un sapere a livello cognitivo, quanto piuttosto la complessità e la ricchezza esperienziale che una rete articolata di professionalità può implementare; in questa rete appare imprescindibile la presenza di una figura, lo psicologo, portatrice di un sapere strategico al fine di promuovere uno sviluppo sano in tutti i diversi aspetti che vanno a costituire la premessa di una persona, un lavoratore e un cittadino pienamente realizzati.
    Il primo, importante ruolo dello psicologo nella scuola si va dunque a costituire come fondamentale contributo alla promozione di sviluppo, di salute psichica e di benessere personale e scolastico. Tale funzione si articola con specifiche modalità indirizzandosi a tutte le componenti della scuola: alunni, docenti e famiglie.

    Punto secondo. Della necessità di una particolare attenzione al disagio minorile, considerata la delicatezza del momento evolutivo nell’epoca moderna e i numerosi segnali d’allarme.
    Varie trasformazioni hanno profondamente mutato la società e la cultura educativa italiana di oggi; tra gli effetti che si registrano l’istituzione scuola registra anche una maggiore incidenza di forme plurime di disagio psico-sociale che si riflettono sul percorso scolastico non solo degli individui che ne sono portatori, ma anche del sistema sociale nel suo complesso
    Molteplici ricerche scientifiche mostrano che il tipo di sviluppo economico che caratterizza le nostre società si accompagna sul piano dello sviluppo psicosociale a quelle che vengono chiamate “nuove povertà”, il cui carattere di novità risiede nel fatto di avere natura assai più di ordine psicologico che economico, e di essere tanto più frequenti proprio nei contesti economicamente più ricchi: qui le nuove generazioni sono afflitte assai più spesso delle precedenti da fragilità emotiva, bassa tolleranza alle frustrazioni, difficoltà nel rispetto delle regole sociali, caratteristiche che si stagliano su uno sfondo di vissuti non ancora sopra la soglia della patologia, ma che appartengono a scenari per lo più ansiosi e depressivi.
    Bassa tolleranza alla frustrazione, difficile relazione con le regole e con l’altro da sé, forme striscianti di disagio che vengono alla luce di fronte al conseguimento del successo scolastico.
    Tra i ventuno Paesi OCSE l’Italia occupa il quinto posto per salute e sicurezza di bambini e adolescenti, il primo posto per qualità delle relazioni interpersonali in famiglia e con i pari, ma solo il ventesimo posto per benessere scolastico (Unicef, Centro di ricerca Ist. Innocenti, Report n° 7).
    Se dunque oggi la scuola è per il bambino o l’adolescente vittima di disagio un luogo da cui fuggire, considerato che il 35% (Eurispes, 2004), degli studenti delle scuole superiori hanno elevate difficoltà di inserimento nel nuovo ambiente scolastico questo significa la possibilità di individuare un luogo istituzionale e un tempo preciso, quello della formazione, per un intervento di prevenzione e intervento precoce sul disagio che significa anche un mutamento, una valorizzazione, un allargamento della missione sociale della scuola.
    Non si deve dimenticare che la dispersione scolastica è oggi una vera e propria piaga che riguarda nel complesso circa il 3% degli studenti secondo i dati nazionali Istat, ma che in alcune aree geografiche il numero dei soggetti che vengono qualificati come drop-out, fuoriusciti dal sistema della formazione arriva a punte del 6-8% e oltre. Questa sacca di minori privi di occupazione e di qualunque speranza sul proprio futuro crea un gigantesco serbatoio di disagio sociale.
    Appare quasi superfluo menzionare in questa sede i molteplici segnali di disagio di cui solo alcuni sono quantificabili.
    a) Tuttavia, i più gravi e preoccupanti, fermo restando il disagio scolastico e la dispersione, qui considerate come una causa di quanto segue, la delinquenza minorile vede un aumento esponenziale dei reati legati al disagio, che esitano in comportamenti contro la persona: lesioni personali, violenza sessuale, rapina hanno avuto un incremento dal 30% al 100% in dieci anni (dati verificabili sul sito Ministero della Giustizia) ma anche la produzione e spaccio di sostanze stupefacenti ha avuto un incremento costante del 100% e oltre dal 1990 al 2003, rispondendo in parte alla questione riguardante il “che fine fanno” i soggetti portatori di disagio che fuoriescono dal contenitore istituzionale scolastico.
    b) Altri indicatori preoccupanti di disagio in area minorile sono le forme striscianti di disturbi dell’alimentazione, che secondo le ricerche ABA riguarderebbero circa un soggetto su dieci appartenente a popolazione a rischio (soggetti di sesso femminile, età tra i 14 e i 18 anni).
    c) Ancora, pure nella difficoltà di reperire dati a conforto di quest’ultimo fattore, ritenuto tuttavia di comune conoscenza, si sono moltiplicate le paure legate alla scuola e le difficoltà di apprendimento, di relazione e comportamento che rimangono inspiegate in ottica didattico-educativa; la loro progressiva ampia diffusione le rende un fattore di forte impasse per il sistema scolastico e mette a dura prova le risorse emotive e didattiche di molti docenti. Queste situazioni, che sarebbero uno degli oggetti privilegiati del lavoro dello psicologo scolastico, attualmente finiscono invece per essere alternativamente trascurate (col rischio di aggravarsi) oppure trattate da psicologi privati a pagamento, riconfermando ancora una volta lo svantaggio delle fasce deboli.
    d) Infine, se i segnali di disagio e di carenza socio-psico-cognitiva provenienti dai minori, che sono anche al tempo steso alunni di scuola sono in buona misura percepiti e tematizzati in più ambiti, non possiamo ignorare il fatto che anche dai docenti provengono appelli che chiedono supporto per le crescenti difficoltà che si trovano ad affrontare in classe. Essi richiedono supporto per la relazione con gruppi classe complessi e strumenti avanzati di lavoro con alunni problematici. Le attuali condizioni di lavoro dei docenti sono da considerarsi a tutti gli effetti da mediamente a altamente stressanti, e alcuni autorevoli studi mostrano come proprio la categoria dei docenti presenti i maggiori rischi di patologie psichiatriche (Lodolo D’oria (ed.), Scuola di follia, Armando, Roma 2005).
    Tale situazione non può certo attribuirsi a singoli fattori, ma semmai a cause complesse.
    E’ tuttavia evidente che la capacità o viceversa l’incapacità dell’istituzione scuola di garantire il benessere degli alunni è divenuta centrale. L’istituzione scuola, a costante contatto coi minori è l’unica cui si può attribuire il compito di un’azione efficace sul piano della prevenzione della dispersione scolastica e di un disagio che può esitare in comportamenti autolesivi e antisociali, la promozione della salute e dell’apprendimento,
    Alla luce di quanto esposto finora appare chiaro che negli ultimi anni nella scuola italiana si sono moltiplicati i fattori che ostacolano il pieno sviluppo della persona; questi nuovi ostacoli sono in larga misura di ordine psicologico, ma affliggono soprattutto la vita degli studenti e in particolar modo di coloro che vivono le realtà sociali, culturali ed economiche più svantaggiate, allargando la forbice che le separa dalle categorie favorite.
    Lo psicologo scolastico si trova nelle condizioni di rimuovere gli ostacoli che limitano la realizzazione delle persone, e in particolare di quei soggetti deboli che sono gli individui in età evolutiva.

    by-nc-saQuest’opera di Franco Nanni è stata rilasciata con licenza Creative Commons Attribuzione – Non commerciale – Condividi allo stesso modo 3.0 Italia.

  • Fermiamo la pedofollia

    Fermiamo la pedofollia

    Franco Nanni

    Le lenzuola bagnate
    e la paura
    del buio
    lo sguardo
    spaventato e la domanda:
    mi vorrai bene
    anche se prendo cinque?
    (Aino Suhola)

    1. La pressione temporale

    La mamma sveglia il suo bambino e gli dice di far presto. Deve vestirsi, far colazione, andare in bagno e prepararsi a uscire. Poco dopo la mamma si dispera perché è già ora, ma il bambino è ancora seduto sul water. Gli urla di far presto. Escono e corrono a scuola. La mamma guida veloce poi scendono e gli dice di camminare in fretta. Il bambino entra in classe e probabilmente gli verrà detto di sbrigarsi a sedersi e estrarre il materiale per la lezione. Più tardi il bambino copierà qualcosa dalla lavagna, poi ci sarà un dettato, poi una scheda di lavoro da eseguire su un libro o incollata al quaderno. In tutte queste attività sarà sempre misurato il tempo che impiega, gli verrà fatto notare di essere stato lento, di essere rimasto indietro, di non aver concluso la scheda che dovrà portare a casa e terminare entro domani. Poi arriverà la ricreazione: solo se è fortunato sarà abbastanza lunga da poter mangiare qualcosa, giocare, andare in bagno e fare tutto questo senza fretta. Se non è fortunato dovrà fare queste cose affettandosi e forse dovrà rinunciare a qualcuna. Naturalmente parliamo dei primi anni delle elementari, perché in seguito, anno dopo anno, la ricreazione si ridurrà a 10 minuti in tutto, spesso perfino abbreviati perché l’insegnante dell’ora precedente doveva assolutamente finire di dettare un compito, un testo, qualcosa… E si è anche adirata perché i bambini avevano fretta di fare ricreazione. E che diamine, quanta fretta. E comunque durante quei minuti di libertà la maestra osserverà i bambini: se socializzano, se si muovono troppo o troppo poco, se sono dispersivi o isolati.
    Che il bambino mangi a scuola o a casa, dovrà fare in fretta. Non ci si distrae, quando si mangia, bisogna portare a termine il lavoro di deglutizione con solerzia e rapidità. Anche perché dopo ci sono tante cose da fare. Da fare in fretta. Se il bambino resta a scuola il pomeriggio, continuerà a lavorare e di nuovo si sentirà dire che è lento, che è distratto, che non finisce in tempo le cose. Poi forse andrà al post-scuola. Si potrebbe pensare che i bambini abbiano più voglia di tornare a casa dai genitori, ma spesso desiderano restare al “post”. Io credo che dipenda dal fatto che è una delle poche parti della giornata in cui nessuno gli fa fretta.
    A seconda degli orari e delle giornate, il bambino potrebbe avere altri impegni, nuoto, calcio, inglese, musica, danza hip-hop. Bisognerà fare in fretta ad andare, che l’allenatore (istruttore, docente…) non aspetta. E prima o dopo gli impegni c’è l’invasione barbarica dei compiti e dello studio, sempre ingenti, lunghi, pletorici, ma sempre apostrofati dalle maestre come “quattro sciocchezze, cosa vuoi che sia, si finiscono in un attimo”. E allora bisogna fare in fretta. Oltre ai compiti c’è magari la scheda del mattino: a scuola, che pigrone!, non ha terminato. E c’è da fare la doccia, rigorosamente quotidiana, e in fretta che l’acqua non si deve sciupare. Alla sua età la mia generazione faceva un bagno alla settimana, e di acqua se ne sciupava meno. E si sciupava meno tempo a lavarsi: quanti genitori sono infastiditi perché il bambino non vuole lavarsi, la sera. Ogni sera, ogni santa sera che Dio manda in terra.
    La sera dopo cena gli verrà mostrato l’orologio sulla parete: “è tardi, è ora di andare a letto”. Bisogna fare in fretta anche quello, i denti, il bidè, il pigiama. Bisogna dormire in fretta perché domani comincia un altro giorno da fare in fretta.
    E nei giorni di vacanza? Orrore! La maestra e anche tanti genitori cominciano ad avere tachicardia e respiro corto all’idea che il bambino possa vivere un poco di tempo liberato dalla pressione temporale e, come vediamo tra poco, dal principio di prestazione. La masturbazione non è più un peccato, ciondolare sì.

    2. Principio di prestazione

    Se riguardiamo la giornata del bambino appena raccontata, ci accorgiamo che questi non fa quasi nulla che non sia soggetto al principio di prestazione: quello che fa viene misurato e valutato, sempre, comunque e dovunque. Tranne al post? Sì… E no. Perché anche lì il suo comportamento viene valutato, per quanto non formalmente con voti e giudizi. Per non parlare delle attività extrascolastiche, tutte sottoposte al principio di prestazione, tranne forse alcune di natura più ludica, dove comunque esisteranno i bravi e i meno bravi. Nessuna di queste attività è comunque libera né autogestita: c’è sempre almeno un adulto che comanda e dice cosa fare, e all’occorrenza sgrida gli indisciplinati.
    Qualcuno potrebbe obiettare che restano comunque spazi aperti… Lo spero anch’io ma il quadro va completato: il bambino potrebbe giocare con una consolle da videogiochi (Playstation, Xbox, ecc.) e lì, almeno in apparenza, dovrebbe solo divertirsi. Ma i livelli del gioco, i punteggi, le vittorie e le perdite sono ovunque, e molti genitori sono preoccupati vedendo le crisi di rabbia del loro bambino quando perde ai videogiochi. Un altro bambino andrà al parco e forse giocherà un poco liberamente. Ma altri occhi vigili (di papà e mamme) guarderanno se il bambino socializza, o se è aggressivo, emotivo o timido, tre etichette non propriamente positive.
    In altri termini il comportamento di un bambino è sottoposto quasi 24 ore per 7 giorni a qualche forma di principio di prestazione o di disciplina. Il bambino migliore socializza facilmente, è veloce nel capire, nel fare i compiti, nell’igiene personale, e soprattutto sta alle regole. Una parola obsoleta a mio parere suonerebbe meglio: obbediente. Perché quando ricevo lamentele su bambini che “non stanno alle regole” chiedo sempre di spiegarmi quali regole essi trasgrediscano, e quasi sempre la regola è una sola: obbedire all’adulto di turno, genitore, insegnante, allenatore, istruttore, catechista…

    3. Prima è meglio

    Oltre alla pressione temporale quotidiana, che agisce a breve termine, i bambini ne ricevono un’altra, a scadenze diverse: l’età a cui iniziare a fare, o imparare a fare qualcosa. Qui il principio è il titolo del paragrafo: “prima è meglio”. Il pannolino tolto a un anno e mezzo è meglio che a tre. Saper leggere a quattro anni è meglio che a sei. E a sei, è meglio scrivere in tutti i caratteri già a Natale, che sennò Babbo Natale non può leggere la letterina e non porta i regali. La regola che “prima è meglio” seguirà il bambino per lo meno in tutto il suo percorso scolastico dell’obbligo: il programma che trent’anni fa si faceva in prima media ora si fa in quinta elementare, se non prima. E così via. Ne soffre, credo, soprattutto la matematica; si sa, la qualità dell’apprendimento della matematica in Italia è in crisi, ma i geni assoldati dal ministero non trovano di meglio che anticipare ancora i programmi, non rendendosi conto che quella è la causa del problema, e non la soluzione.
    Non restano immuni da questa regola nemmeno le altre attività dei bambini: studiare musica a un anno? Perché no? Imparare la filosofia o la trigonometria a tre anni? Perché no? Fare danza hip-hop a quattro anni? Il pattinaggio agonistico a sei? L’hockey su ghiaccio a cinque? Perché no? Eppure, quando qualcuno ci dice: “fare sesso con bambini? Perché no?” giustamente ci scandalizziamo inorriditi. Ma questo fare tutto così presto, non è in fondo un modo di essere diversamente pedofili?

    4. Fermiamo la pedofollia

    Qualcuno si è mai chiesto cosa possa comportare, in termini di salute mentale, un sistema di vita del genere applicato a tutte le età inclusa quella evolutiva? Ansia, somatizzazioni ansiose, insonnia, depressione, disturbi digestivi e alimentari, demotivazione, oppositività, non sono forse disturbi diffusissimi tra i bambini e gli adolescenti? Ogni tanto un insegnante tra gli altri mi chiede: ma cosa sta succedendo? Perché sono tutti così malconci? Spero, con questo articolo, di aver dato un contributo alla riflessione.

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