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  • Accogliere o medicalizzare le differenze?

    Analisi e proposte per fermare il declino della scuola

    Franco Nanni

    La scuola si confronta, oggi più che mai, con le differenze tra i discenti che ospita sui propri banchi: per farlo dovrebbe trovare una modalità pedagogica in grado di integrare e compensare le differenze intergenerazionali, e insieme dovrebbe trasformarsi assieme alle mutazioni transgenerazionali. È ovvio che un piccolo di Homo sapiens è geneticamente assimilabile a qualunque altro, ma è altrettanto ovvio che le esperienze di accudimento, di attaccamento, di esplorazione motoria e cognitiva, di apprendimenti formali e informali costituiscono un insieme di fattori che possono modificare sostanzialmente il modo di essere di un bambino. Temo però che questa fondamentale istituzione del nostro Paese stia piuttosto soccombendo alle differenze, e che la sua capacità di accoglierle e integrarle sia al collasso. Cercherò di spiegarne i motivi, e di formulare idee di mutamento che possano arrestare un declino già non più in fase iniziale.

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    L’apparato normativo che disciplina l’erogazione del cosiddetto sostegno scolastico non è più all’altezza della situazione attuale. Nato dapprima con la legge 517/77 e re-inquadrato poi con la legge 104, era destinato in origine agli alunni con importanti disabilità di natura fisica e/o psichica. Nel tempo tuttavia l’insegnante di sostegno è divenuta uno strumento fondamentale di completamento delle risorse umane impiegate nella scuola non solo per gli alunni con gravi disabilità ma per un numero vasto di bambini con lievi e diffuse problematiche emotive e cognitive che comunque necessitano di una attenzione particolare. Sennonché a questo punto si è verificato un secondo insieme di fatti apparentemente mirato a ritrovare lo spirito e la lettera della legge originaria: nel 2008 nuovi criteri di presa in carico per l’integrazione scolastica in direzione di una più severa disciplina, successivamente la legge 170 (dislessia e altri Disturbi Specifici dell’Apprendimento) e infine diverse direttive ministeriali sui cosiddetti BES (Bisogni Educativi Speciali).

    La vera mira di questa trasformazione normativa appare chiara se osserviamo che, a differenza del sostegno scolastico che alloca risorse umane a disposizione di alunni in difficoltà e delle loro classi, tutte le nuove norme di supporto ad alunni con bisogni speciali sono accomunate da una ferrea regola: risorse umane aggiuntive a disposizione = zero.

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    Se rivolgiamo l’attenzione alla scuola primaria, ma con un occhio vigile anche sul triennio della scuola dell’infanzia, possiamo osservare che le classi si stanno gradualmente popolando di una tipologia di bambino che potremmo chiamare “disorganizzato”: si caratterizza soprattutto per avere non bisogni speciali, bensì bisogni normali ma disattesi: a titolo di esempio, aveva bisogno di accudimento e presenza ma è stato inserito troppo precocemente in strutture educative, subendo distacchi troppo precoci e lunghi dalle figure di attaccamento. Spesso non riesce a fidarsi davvero dell’adulto, non riesce a costruire un rapporto significativo con esso al di fuori della famiglia e spesso anche all’interno di essa.

    Il risultato più tipico di questa serie di disarmonie di sviluppo è un bambino intelligente, effervescente e curioso, ma, appunto, disorganizzato, assai carente nelle capacità di contenere gli impulsi, di dirigere le proprie azioni, di esser contenuto dalla parola dell’adulto. Un bambino che non è portatore di alcuna patologia propriamente detta, ma che è “antropologicamente” inadatto alla vita scolastica tradizionalmente intesa, a causa dei suoi tempi di attenzione brevi, della sua ricerca continua di stimoli, della sua intolleranza all’attesa e al vuoto, del suo spasmodico bisogno di attenzione esclusiva da parte dell’adulto, nella aurorale consapevolezza che non può svilupparsi in modo congruo senza di essa. È un individuo incapace di “esserci”, privato dapprima del contatto pelle a pelle prolungato e rassicurante, in seguito della sana esperienza spontanea dell’esplorazione motoria. Sono i bambini dell’horror vacui, continuamente affamati di stimoli esterni che non sanno interiorizzare né far durare. Il disconoscimento del corpo, affettivo cognitivo e percettivo, porta spesso a fenomeni crescenti dello spettro ansioso e ipocondriaco.

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    I genitori dei bambini disorganizzati sono essenzialmente cittadini normali del nostro mondo: vita quotidiana frenetica, senso di urgenza costante o assai frequente, molte incertezze sul proprio ruolo genitoriale, bisogni affettivi propri non del tutto soddisfatti nel passato e/o nel presente. Di fronte alla scuola e alle sue denunce difendono i propri bambini non tanto per convinzione ma per identificazione con essi, e insieme per senso di inadeguatezza, sospesi come sono tra il bisogno compensatorio dei propri irrisolti grumi affettivi e il dogma dei “No che aiutano a crescere”.

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    Le maestre (e i pochi maestri) che operano a contatto con questi bambini possono essere anagraficamente più o meno vicini ai loro genitori. Talvolta apparentemente contrapposti, condividono in realtà molti principi, almeno in astratto: prima di tutto il rispetto delle regole, vera ossessione collettiva del nostro tempo, anche se poi i genitori tendono a pensare che questo rispetto debba essere imposto e insegnato da altri: docenti, catechisti, allenatori sportivi… Ma non da loro stessi. Portare i bambini disorganizzati al rispetto delle regole è impresa ardua, avara di soddisfazioni e altamente stressante. Dopotutto anche le maestre ambirebbero a trovarsi in classe bambini già ben capaci di rispettare le regole per merito dell’opera di genitori solerti che confezionano individui equilibrati, organizzati e soprattutto docili… Perché in fondo è la docilità che si cerca, sia pur riverniciata con la nobile frase rispetto delle regole.

    Arrivati fin qui è doveroso aprire un discorso sulle condizioni di lavoro del corpo docente della scuola primaria e anche di quello dell’infanzia. Non può essere trascurato il dato di fatto che la scuola italiana subisce da decenni tagli progressivi alle risorse, talvolta graduali, talvolta netti e bruschi come i “dieci miliardi di tagli al bilancio di scuola e università tra il 2008 e il 2012.” (R. Ciccarelli su Il Manifesto del 26/3/2013). Le maestre si trovano sempre di più a operare da sole in classi numerose e sempre più popolate di bambini disorganizzati; si tratta di una condizione che genera stress, logorio, rabbia e senso di solitudine, sentimenti tutt’altro che ideali per un proficuo lavoro a contatto coi bambini, che abbassano fortemente la capacità di accogliere e contenere, una capacità cruciale per la funzione docente e educativa.

    Alle volte l’insegnante sotto stress devia la propria irritazione lontano dal bambino per dirigerla tuttavia sui suoi genitori. Si comincia con quotidiani racconti delle malefatte del bambino, buttati addosso al genitore al momento dell’uscita, e quasi sempre mentre il bambino stesso ascolta! Il tono allarmato e la ripetitività della cosa sortiscono effetti vari su papà e mamme, ma il più tipico è la sensazione che vi sia, nel comportamento della maestra, una implicita, perfino ovvia richiesta di “fare qualcosa”, il che significa per la maggior parte delle persone punire il bambino.

    Il “fare qualcosa” del genitore raramente fa migliorare le cose in modo percepibile a scuola, e la situazione entra in stallo. È di solito a questo punto che l’insegnante cala l’asso di briscola: introduce l’idea che il bambino sia “da certificare”, suggerisce di rivolgersi  alla neuropsichiatria ASL. Ci sono naturalmente situazioni che meritano questo genere di iniziativa, ci mancherebbe, tuttavia negli ultimi due/tre anni sono davvero troppe le segnalazioni che, prese in parola dalla famiglia, portano a una valutazione da parte della ASL che non sfocia affatto in una certificazione ex L.104, a volte per la obiettiva assenza di patologie nel bambino, oppure in altri casi per il fatto che quelle eventualmente riscontrate non rientrano nelle nuove, ristrettissime tabelle di ammissibilità.

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    Occorre a questo punto affrontare un altro aspetto conflittuale originato dal combinato delle condizioni di lavoro del corpo docente e della crescente presenza di bambini disorganizzati nella scuola. Si tratta del conflitto latente, ma che monta da qualche anno, tra docenti e professionisti di ambito psicologico a proposito delle valutazioni. “Questo bambino ha qualcosa”, pensa la maestra osservando il suo difficile funzionamento in classe. “Il bambino è nella norma” scrive solerte il neuropsichiatra (pubblico o privato). L’assunto della prima è empirico ma tremendamente generico: siccome in classe non funziona, deve avere qualcosa. L’assunto del secondo è parimenti empirico ma specifico e statistico: ho somministrato i test X, Y e Z e i punteggi ottenuti risultano nella norma, che qui indica una normalità statistica; essa non implica una normalità prescrittiva di adeguatezza rispetto alle richieste comportamentali (e non solo) in ambito scolastico! Inoltre la normalità statistica non implica nemmeno un criterio di “salute” . Dovremmo ricordarci di un alto genere di normalità, quella bio-evolutiva che utilizza i parametri del corpo-mente umano come risultato dell’evoluzione.

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    Il problema è diverso e risiede nel contesto più che nell’alunno: il bambino statisticamente normale di oggi vive in una scuola pensata per i bambini statisticamente normali di ieri. Inoltre la scuola di ieri era stata progressivamente dotata della possibilità relativamente agevole di ottenere risorse di sostegno per tanti bambini che in assenza di ciò sarebbero stati a disagio o nell’impossibilità di integrarsi e di apprendere adeguatamente, pur senza essere portatori di specifiche patologie. Di tutta questa dotazione oggi si è fatto strame, perché la scuola di oggi non è più pensata per alcun genere di normalità statistica dei bambini ma soltanto per una adeguatezza finanziaria a criteri di risparmio e di astratta qualità decisi in qualche sede nazionale o europea. Naturalmente a spese dei più deboli.

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    Tornando alla questione principale, ovvero la solitudine e la fatica delle maestre lasciate sole con classi numerose e popolate di bambini variamente disorganizzati, con le conseguenti richieste   più o meno improprie di “certificazione”, si delinea all’orizzonte un novello “comma 22”: «chi è patologico può richiedere il sostegno scolastico, ma chi richiede il sostegno scolastico non è patologico». Da un lato sembra quasi che ottenere un insegnante di sostegno per alcune ore la settimana sia equiparato alla assegnazione di una pensione di invalidità, che occorre in qualche modo “meritarsi” con una bella patologia da esibire. Sul versante delle docenti una “certificazione” ex L.104 è l’unico modo di avere risorse umane aggiuntive in classe. Ciò costituisce di per sé un fattore incentivante alla crescente medicalizzazione delle differenze che è in atto nella scuola non certo da ieri, ma che sta galoppando a grandi passi. Il paradosso è che con i nuovi criteri del 2008 si può medicalizzare finché si vuole, ma la strada resta sbarrata, e quindi il risultato positivo che queste richieste improprie di certificazione perseguono (risorse umane aggiuntive) non può essere raggiunto. Questo non significa però che tale prassi sia priva di effetti: si abbassano progressivamente i livelli di tolleranza, accoglienza e contenimento per quel bambino per lasciare il posto a un sostanziale disimpegno morale e de-responsabilizzazione verso la qualità dell’intervento educativo, quando non addirittura a logiche espulsive. Si presenta inoltre il rischio che, alla ricerca di un qualche ombrello protettivo verso bambini ritenuti difficili, si percorrano altri canali a risorse zero che si spera siano più facilmente percorribili. Ne sono gli esempi più tipici la sovraesposizione diagnostica verso i DSA e il ricorso indiscriminato all’inquadramento negli alunni con BES. Come poc’anzi detto, anche le diagnosi di ADHD hanno un ruolo non piccolo, ma esse sfociano per lo più in un nulla di fatto (non sono quasi mai abbastanza gravi da soddisfare i limiti assai restrittivi per il sostegno) o, peggio, nel ricorso a farmaci stimolanti come il Ritalin.

    8 Che fare ? Cambiare la scuola per fermare il suo declino

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    Prima di tutto occorre ristabilire un principio di fondo che rischia di essere completamente disatteso: l’integrazione delle differenze sia come prassi sia come allocazione di risorse umane aggiuntive non risponde a principi medici psichiatrici ma essenzialmente a principi pedagogici. Chiedersi quante insegnanti compresenti sono necessarie per svolgere un buon lavoro in una classe è una domanda pedagogica che richiede una risposta pedagogica, non medica o psichiatrica. Allo stesso modo, chiedersi qual è la miglior mediazione didattica possibile per favorire l’apprendimento della matematica di un particolare bambino o classe di bambini è  anch’essa una domanda pedagogica, non medica e non psichiatrica.

    8.2

    Occorre che la scuola si doti di un repertorio di buone prassi pedagogiche per l’integrazione delle differenze e la buona mediazione didattica. Questo repertorio potrebbe essere organizzato anche su una piattaforma digitale con una logica collaborativa di tipo Wiki che coinvolga l’intelligenza collettiva di tutti coloro che, da docenti e dirigenti, vogliono contribuire alla costruzione di questo repertorio.

    8.3

    Di fronte alle crescenti diversità e difformità che caratterizzano la popolazione scolastica attuale, si deve mettere in opera un altro cambiamento che si sta rivelando cruciale per la salvezza della scuola come istituzione autorevole: considerare con l’occhio della normalità bioevolutiva la quantità e la qualità di richieste comportamentali e cognitive indirizzate ai bambini che siedono a scuola oggi, comparandole anche con il sistema complessivo di vita che li circonda e li coinvolge.

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    La scuola dovrebbe contrastare con ogni sua forza migliore il diffondersi di insegnanti-diagnoste che appongono etichette psichiatriche a tutto andare e talvolta addirittura stilano su fogli di carta liste di test da effettuare a determinati alunni, test che spesso, se effettuati, risultano poi pienamente normali. Ogni volta che l’insegnante dice “questo bambino ha qualcosa” (intendendo una qualche patologia cognitiva o emotiva) è come se la docente stesse dicendo “questo bambino non mi riguarda”.

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    Infine, riprendendo il principio iniziale, occorre capovolgere l’assetto normativo di oggi su un punto cardine: la decisione di incrementare le risorse umane a disposizione di una classe e/o di singoli alunni e/o di prevedere strumenti compensativi/dispensativi è, come si è detto, una scelta pedagogica e non medica, che quindi appartiene alla scuola e non può essere condizionata in alcun modo dalla presenza di diagnosi esterne o attestazioni di invalidità. Essa dipende da considerazioni interne al lavoro e alla specificità scolastica, e può derivare da aspetti rilevati nel singolo alunno ma anche da caratteristiche particolari di un certo gruppo-classe.

    Ritengo che in assenza di un serio mutamento nelle direzioni sopra indicate, la scuola italiana sia destinata a un inesorabile declino, peraltro già iniziato da tempo.
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