Tag: Adolescenti

  • Degli adolescenti non si sa niente

     

     

    Il titolo di un inquietante e truce romanzo di S. Vinci, forse troppo poco considerato al tempo della sua uscita, era “Dei bambini non si sa niente”. Degli adolescenti ancor meno. Anche il poco che crediamo di sapere è vago. Sappiamo che tanti bevono, non sappiamo perché. Sappiamo che alcuni fanno sesso precoce e compulsivo, ma non sappiamo perché, o forse preferiamo non saperlo. Alcuni si suicidano, e ci affanniamo a cercare “il” motivo, forse già sapendo che non lo troveremo. Sappiamo che tantissimi non sono motivati allo studio, e qui forse con un po’ di sforzo potremmo anche sapere perché. Di fronte agli adolescenti è un pullulare di stupori e falsa coscienza. “Pensano solo ai soldi” osserviamo con sdegno. Chissà perché lo fanno… Certe ragazzine mettono fuori culi e tette e cercano di farsi strada ovunque e comunque. Che scempio, mai visto niente di simile, nella nostra onorata società. Un ragazzo ruba soldi in casa per comprarsi l’Iphone. Accidenti, come gli sarà venuto in mente? Mai sentito parlare delle nuove tecniche di marketing?
    Degli adolescenti ci preoccupiamo. Facciamo indagini su alcol, droghe, gravidanze precoci e forse poco di più. Li esploriamo come un territorio ignoto infettato da malattie esotiche. Nelle carte geografiche antiche sull’ancora inesplorata Africa pare scrivessero “hic sunt leones”, qui ci sono leoni, poiché era tutto quello che ne sapevano. Hic sunt adulescentes. Li guardiamo con preoccupazione. Per il loro presente. Per il loro futuro. Pronunciamo la parola futuro come un mantra. Si parla tanto dell’aria pulita perché c’è lo smog, e oggi anche le polveri sottili. Ma come in tutti i rituali, dopo aver recitato il mantra “fu–tu–ro”, la nostra moderna danza della pioggia, la siccità prosegue inalterata, lasciandoci in tutta la nostra impotenza.
    Allora si cercano delle soluzioni. Se ne fanno vessilli. Gli Oratori, le Parrocchie. Alcuni amministratori vi si aggrappano per resistere ai flutti delle risorse pubbliche sempre più risicate. Va benissimo, basta ammettere che gli Oratori coinvolgono soltanto una minoranza di adolescenti, non la generalità dei cittadini di quell’età, e che non può che essere così. Allora, che si fa? Nei momenti di crisi e di sbandamento, cercarsi dei nemici dona sollievo. L’autoritarismo, temibile nemico di un tempo andato, ora non fa più paura, anzi viene clandestinamente titillato citandolo senza abbracciarlo: “non sono per l’autoritarismo, ma…” È il nuovo mantra, dopo “io non sono razzista, ma…” Ora il nuovo Nemico è il Permissivismo. Vituperarlo è il Dogma, i Divieti sono le sue Opere, dire NO ai figli sono le Preghiere, e di tanto in tanto nei luoghi di educazione si possono ascoltare conferenze dove un ispirato Profeta celebra la Giornata dell’Odio contro il Permissivismo. Ci salverà? Crearsi dei nemici è la miglior soluzione per non pensare, per non sentire. Per anestetizzarsi dalla “umiliante, irritante presa di coscienza della propria impotenza. Non solo le persone comuni, […], ma anche coloro che occupano alte cariche e sono sotto i riflettori, leader ed esperti chiamati a ricoprire incarichi pubblici e a occuparsi del benessere e della sicurezza di tutti, restano attoniti e confusi […] Forse oggi, mai come in passato, l’individuo è succube del gioco delle forze di mercato, un gioco di cui non è assolutamente conscio e che tanto meno riesce a capire o prevedere, ma dovrà pagare per le sue decisioni prese (o non prese) individualmente.” (lo scriveva Z. Bauman quasi dieci anni fa).
    D’altronde il “cosiddetto” permissivismo (ma cosa sarà poi davvero?) si presta bene al ruolo di nemico, perché è indubbio, come ci riferiva mesi fa il Censis, che siamo di fronte a una “pervasiva sregolazione delle pulsioni, risultato della perdita di molti dei riferimenti normativi che fanno da guida ai comportamenti”. Ma siamo ben lontani dall’aver capito che cosa ha causato tutto questo, dovendo anche ammettere che si tratta di fenomeni complessi e trasversali che non si lasciano interpretare attraverso i consueti, rassicuranti schemi. E allora arriva il Profeta che indica la Via alle famiglie e alle scuole ricordando i bei tempi andati in cui il maestro, come il padre, era il testimone, il sacerdote della sostanziale coerenza di un mondo in cui tutto si tiene, un mondo dotato di senso, di futuro e di speranza. Il maestro, come il padre, era la mano del mondo che con amore si curvava verso di noi, bambini, per portarci nel regno della vita dove avremmo fatto cose belle, come a loro volta avevano fatto papà e mamma, che tra le cose belle avevano fatto noi, i figli. Il mondo aspettava noi, aveva bisogno di noi. Il mondo aveva un futuro e quel futuro eravamo noi. Ma è solo nostalgia: il maestro e il genitore d’oggi non sono testimoni né sacerdoti di un bel niente, perché sentono di vivere in un mondo difficile, caotico e instabile, che faticano a comprendere, della cui coerenza dubitano, come dubitano del fatto che il rispetto delle regole sia davvero un atteggiamento premiato dai fatti.

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  • Docenti in classe dopo un lutto

    Purtroppo non è impossibile morire a 13 anni, per cause certamente non naturali ma dovute principalmente a incidenti e malattie. In altri casi a 13 anni si incontra la morte di una persona cara: un genitore, un nonno, ma anche un fratello, un cugino, coetaneo o adulto che sia. La scuola è quasi inevitabilmente teatro di una parte di questo dramma, e l’insegnante che si trova a contatto con questi eventi e con i vissuti che li accompagnano incontra momenti di dubbio, di paura della propria adeguatezza a contenere e accompagnare le emozioni che possono emergere in questi casi.

    Temo non ci siano letture né metodologie che davvero possano guidare univocamente il docente in una situazione così forte. Ci si può attendere che i ragazzi, ritrovatisi in classe dopo l’evento luttuoso, avvertano il bisogno almeno inizialmente di parlare dell’accaduto, sia pur in modo confuso e magari caotico. Tuttavia questa non è l’unica reazione possibile né necessariamente la più probabile. Spesso accade che emergano anche spinte verso la rimozione, tese a soddisfare il bisogno di non pensarci o di pensare ad altro, fino a fare battute e ridere pur di allontanare lo spettro della morte e del lutto. L’idea della morte a 13 anni è spesso talmente intollerabile da generare reazioni di difesa che possono sbalordire o amareggiare l’adulto. Condotte di questo tipo non vanno condannate ma comprese perché in questa fascia di età il contatto con la morte è paragonabile a quello con una sostanza tossica, dove il bisogno di fuga è quindi talvolta fortissimo. La fuga non deriva da cinismo o insensibilità, ma da una difesa estrema di un genere di persone, i tredicenni di oggi, completamente indifeso e impreparato ad affrontare il lutto e la perdita, perfino in casi in cui si tratta di una morte naturale di persone molto anziane; la morte di un coetaneo risulta a maggior ragione altissimamente allarmante per loro. È comunque un bene che i ragazzi possano parlare, mentre l’atteggiamento di fuga va accettato senza condanne né stigmatizzazione ma certamente non incoraggiato perché è una strategia molto immatura ancorché talvolta l’unica pensabile per loro. Fra il “non stigmatizzare” e il “non incoraggiare” si colloca una gamma di azioni del docente estremamente articolata ma non traducibile in “istruzioni per l’uso”. Alla base di tutto sta l’attenzione al contesto del momento: chi è la persona che manifesta impulsi di fuga o negazione (ad es far battute di spirito, cercare di far ridere, disturbare)? Cosa si legge nei volti degli altri di fronte al suo intervento? Fastidio? Favore? Si può introdurre l’idea che parlare di argomenti dolorosi può risultare insopportabile a qualcuno, ma questo non lo autorizza a impedire ad altri di farlo.

    Da parte degli alunni più evoluti possono scaturire spunti per riflessioni importanti su come porsi di fronte a una vita che può interrompersi all’improvviso e che manifesta chiaramente, e brutalmente, di non essere eterna. Se queste riflessioni emergono (forse non subito, ma nei giorni successivi) l’occasione va a mio parere raccolta per sviluppare temi assai importanti nella formazione della persona. È possibile però che il livello di queste riflessioni sia assai altalenante, e talvolta del tutto irraggiungibile da una parte della classe, che potrebbe restarne fuori o, anche, fare boicottaggio attivo. Appare ovvia la necessità di tentare di coinvolgere tutti almeno nei temi essenziali.

    Tra le reazioni dell’immediato non è da escludere la richiesta di fare lezione normalmente, che va anch’essa interpretata come tentativo di allontanare i pensieri dolorosi e intollerabili.

    C’è ancora un genere di reazione possibile e tutt’altro che rara: la rabbia. Non mi riferisco alle situazioni traumatiche dove può essere individuato un colpevole (ad esempio l’investitore ubriaco al volante), dove l’ira ha un destinatario, una direzione e realistiche motivazioni, ma a una rabbia viscerale, assoluta, senza appigli alla situazione concreta. Il suo nucleo di base, ancestrale, può essere identificato nella rabbia abbandonica, ovvero la forte reazione del neonato o dell’infante all’allontanamento della madre (che può avere un corrispettivo più “tecnico” nella protesta per la separazione), e per estensione la rabbia di chi si sente abbandonato da un partner o da un amico. È intuibile, nei congiunti di persone decedute, quanto possa essere complesso albergare in sé rancore abbandonico verso la stessa persona di cui si piange la dipartita. Nei preadolescenti oltretutto questa reazione di rabbia può diventare funzionale alle difese contro il dolore della perdita, diventando una sorta di antidepressivo endogeno, il che porta al rischio di cronicizzazione. Vediamo allora tredicenni che hanno perso un congiunto o un coetaneo incorrere, nei mesi successivi, in ripetuti passaggi all’atto che vanno dall’aggressività al bullismo passando per cronici problemi di condotta nella forma di rabbia sorda nei confronti dell’adulto in genere o del docente.

    Quando gli insegnanti si trovano a gestire una classe nelle giornate immediatamente successive a un evento luttuoso che ha interessato uno dei membri o l’ambiente sociale circostante, gli scenari probabili sono dunque assai variegati, e le reazioni individuali e collettive all’accaduto possono essere facilmente contrastanti e talvolta opposte, passando dal bisogno di parlarne al rifiuto di parlarne o alla negazione. Che fare in questi casi di richieste contrastanti all’interno della classe? Credo si debba cercare semplicemente  di essere lì presenti con tutti e cinque sensi aperti e cogliere i diversi momenti dei bisogni dei ragazzi mediando eventualmente tra gli atteggiamenti contrapposti. La “bussola” di questa mediazione dovrebbe essere orientata verso l’accrescimento della capacità di pensare e di soffrire, con rispetto verso gli impulsi di fuga e negazione, ma senza colludere con essi.

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  • La scuola, crocevia di molte crisi

    Idee per non perdere l’orientamento e mantenere viva la speranza

    (Saggio di presentazione del volume “I maestri del dolore” di F. Nanni – ed. Pendragon)

    La scuola non è soltanto un luogo di lavoro e di educazione: è anche un collettore, un setaccio dove si raccolgono sensi e significati che permeano l’intera vita di una società. Se è vero che la nostra civiltà sta vivendo un periodo di crisi non solo economica ma anche culturale, o addirittura di sistema, è ovvio che uno dei luoghi dai quali percepire ciò è proprio la scuola, che diventa così il crocevia di molte diverse dimensioni di crisi, dalle questioni meramente materiali alle carenze di personale, dai macrofenomeni dell’economia mondiale fino alle scelte di politica dell’istruzione, per arrivare ai vissuti, alle vicende di tante famiglie e dei loro bambini, per finire ai tanti messaggi che tutti, ma in particolare i più piccoli ricevono dai media e traducono in pensieri e azioni che proprio nella scuola prendono forma.

    In questo panorama i genitori vivono, talvolta producono, e spesso insieme subiscono le difficoltà di crescita dei loro figli; le insegnanti, nel loro sforzo quotidiano, alternano speranze e sospetti nei confronti di ricette di pronta utilità: ne sentono un disperato bisogno, ma ne avvertono anche la semplicistica promessa che in breve si fa premessa di delusioni. “Non ci sono ricette” è diventata una frase alla moda, ma mi domando se sia poi più onesta, più vera, nobile e utile di una umile ricerca di idee e prassi per mantenere la speranza, forse anche per sentirsi vivi, per sfuggire a una crescente oscurità nella quale si perde l’orientamento necessario a dirigere l’azione e le energie. Vivere in un periodo critico come questo comporta conseguenze in larga parte inevitabili: perdite, rinunce, riduzione delle prospettive, delle aspettative e della progettualità individuale e istituzionale. Vi sono però anche effetti collaterali che dovrebbero essere limitati e combattuti: un generale senso di perdita di controllo sugli eventi e sulle persone, la sensazione pervasiva che le problematiche portate dagli utenti/bambini/ragazzi invadano ogni spazio soffocando le risorse esistenti, fino a renderli quasi dei persecutori/carnefici dotati di menti opache, insondabili e tossiche. Questa condizione, che potremmo definire di oscuramento mentale, o addirittura di cecità, è un effetto che deve essere limitato perché agisce da potente inquinante verso un clima già intrinsecamente compromesso, accelerando la perdita di speranza e di capacità di orientare le azioni di ciascuno. Già, ma cosa si dovrebbe fare, quali “ricette” adottare in concreto per contenere questi effetti? Non credo sia né giusto né onesto sfuggire a questa richiesta con facili frasi alla moda; giungere a una risposta richiede però un percorso concettuale, e per cominciare immaginiamo alcune situazioni:

    1. È il giorno di Natale, e all’improvviso il termosifone del soggiorno inizia a perdere acqua bollente e grigiastra che si sparge rapidamente sul parquet.
    2. Mamma e papà sono in coda alla cassa del supermercato e il loro bambino, con il volto paonazzo, piange, si dimena e grida parole rese ormai incomprensibili dalla foga disperata che lo agita da quasi mezz’ora.
    3. Sono le dieci del mattino e la maestra è già esasperata per l’incontenibile disturbo di un bambino che sembra non riuscire mai a essere impegnato nell’attività del momento, e che trascina alla distrazione molti compagni.

    In tutti e tre i casi è facile immaginare che due domande premano sui loro protagonisti adulti: “che cosa faccio?” è probabilmente la prima, seguita da “perché fa così?”, riferendosi rispettivamente al termosifone e al bambino. Entrambe le domande sembrano alimentarsi di un unico, pressante bisogno: farlo smettere.

    Nella situazione (1) sia il bisogno che le domande sono adeguate per la ricerca di soluzioni, mentre lo sono soltanto in apparenza nelle altre due, rispetto alle quali esse applicano una logica fallace. Nel primo caso esiste infatti un insieme finito di azioni materiali da eseguire per limitare i danni e fermare la perdita, e infine per rimettere in funzione l’oggetto. È del tutto logico per ogni idraulico pensare che la riparazione definitiva richieda necessariamente di comprendere “perché fa così”. È molto raro sentire qualcuno dire “le ho provate tutte, ma il radiatore continua a perdere come prima”, mentre è molto comune che “le ho provate tutte” sia l’inizio di tante lamentele di genitori e docenti. “Le ho provate tutte” è in un certo senso il sintomo dell’applicazione di una serie di logiche fallaci: infatti nelle situazioni simili a (2) e (3) non esiste un insieme finito di azioni materiali da eseguire in nome del bisogno pressante di “farlo smettere”, bisogno che non può essere impunemente trasferito da un prodotto tecnologico a un essere umano. La logica del “perché fa così?” non è di per sé altrettanto fallace, ma lo diventa se non tiene conto, ancora una volta, di quanto sia diverso avere a che fare con oggetti o con esseri umani. Una differenza che, nell’era della tecnica, sfugge ai più. Tendiamo troppo spesso a uniformare il vivente, e soprattutto il pensante e il senziente, al tecnologico. Sembra ovvio, e non lo è, collegare il “perché fa così?” a un’altra domanda, “dov’è localizzato il guasto?”, cosa che poi implica automaticamente mettersene alla ricerca. È una fallacia meccanicistica, quindi, che ci porta a eludere la domanda principale da porsi di fronte a esseri umani: “che cosa ha in mente?” Quando ci relazioniamo a un nostro simile, infatti, non possiamo proprio fare a meno di interpretarne le azioni come il frutto di pensieri, sentimenti e bisogni, ovvero il frutto di contenuti e processi mentali. Quando cessiamo di farlo, l’altro (alunno, genitore, collega…) diventa un oggetto, strumento o ostacolo a seconda, oppure, peggio, viene vissuto come un persecutore e un nemico. In tutti i casi cadiamo nella fallacia meccanicistica, che rende infruttuosi i nostri tentativi di “riparazione” e ci costringe a vissuti di impotenza molto debilitanti. Questa capacità di vedere l’altro come risultato di stati mentali viene denominata in vari modi, ma quello che preferisco è mentalizzazione, il termine scelto dai ricercatori dell’Anna Freud Centre di Londra. La mentalizzazione è un concetto antichissimo e insieme modernissimo: segna l’inizio dell’umanità così come la conosciamo, ma è anche uno dei fronti più avanzati della ricerca psicologica degli ultimi anni.

    Qual è il rapporto tra le considerazioni iniziali a proposito della crisi e il concetto di mentalizzazione? In sintesi: le situazioni stressanti o logoranti, le condizioni potenzialmente depressive e il burnout sono tutti fattori che portano più o meno direttamente a un blocco o a una forte riduzione della capacità di mentalizzare, ovvero a una condizione di cecità mentale. La cecità mentale, dunque, è una sorta di effetto collaterale della crisi, che nello stesso tempo finisce con l’aggravarne le conseguenze sulle persone e sulla qualità complessiva delle istituzioni educative.

    Il libro che ho scritto non parla della mentalizzazione e non è un manuale teorico. È piuttosto uno strumento destinato a tutti coloro che operano a contatto con gli alunni e i loro genitori, per aiutarli a articolare processi di mentalizzazione attraverso narrazioni, principalmente, col supporto di alcune riflessioni.

    È assai probabile che la capacità di mentalizzare abbia promosso il successo evolutivo umano in tempi molto lontani, e sia stata quindi integrata nella nostra eredità, se non propriamente genetica, almeno come funzione alla portata del cervello umano. Sembra che in ogni ambito relazionale essa produca effetti benefici, ma oggi in questa abilità possiamo cercare anche e soprattutto un antidoto ai veleni della crisi culturale, economica e politica che affligge non solo la scuola ma l’intero nostro Paese.
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  • Alunni/e delle medie: disagio relazionale e sociale, la paura, il dolore

    Negli ultimi tempi ho avuto modo di conoscere in modo diretto il disagio di un discreto numero di preadolescenti, alunni e alunne (in prevalenza alunne) delle scuole medie. Distillando le voci più frequenti, i disagi più spesso espressi, credo di poter sintetizzare i contenuti del disagio stesso in alcune frasi-tipo:

    • Gli altri non mi amano quanto io amo loro. Io non sono importante per loro quanto loro lo sono per me. Io non valgo niente non sono niente non servo a niente.
    • L’unica persona degna di esistere è una persona bella, in forma, intelligente, brillante, simpatica, amata da tutti, mai triste, sempre sorridente. Ma soprattutto: non sono io.
    • Non mi piace niente di me. Il mio corpo è brutto. Pieno di difetti.
    • Mi amerai lo stesso quando vedrai come sono davvero? Come potrai amare tutte le cose brutte e difettose che ci sono in me? Chi mai potrebbe farlo? Nessuno. Ho paura: nessuno.
    • Come si fa a sopportare le cose che finiscono, le persone che si perdono, i cari che vanno via per sempre, come si fa a sopportare che i legami non siano per sempre? Come si fa a vivere in questo modo?

    La reazione più diffusa a questi vissuti è la chiusura in sé, il pianto, la distrazione perseguita con Smartphone e altri vari mezzi telematici ed elettronici; diffusa la pratica di farsi piccoli tagli sulla pelle delle braccia. Il dolore fisico che ne deriva assume un duplice significato: lenisce (un poco) il dolore mentale spostandolo su uno stimolo fisico più forte e
    sembra marcare, quasi punire la persona come “sbagliata” e “colpevole” del suo dolore.
    Le figure genitoriali sono viste alternativamente come ombre lontane, indifferenti, che non provano interesse per le figlie, o come giudici arrabbiati, ostili e talvolta fisicamente punitivi, e pressoché mai come una risorsa positiva. Molti di questi ragazzi e ragazze vivono una solitudine senza fondo e senza sollievo. Senza riscatto.
    Il tema profondo, il nucleo comune che sembra stare alla base di tutto è il bisogno di essere amati, la paura di non esserlo, la difficoltà di creare dei legami e di accettarne la finitezza.
    Vediamo nel primo grafico l’insieme dei temi emersi (considerando che assai spesso un individuo porta più temi in colloquio), e nel grafico sotto l’incidenza dei singoli temi sull’insieme dei soggetti. Come si vede, il nucleo comune, evocato esplicitamente da quasi 7 ragazzi su 10, occupa il maggior spazio accanto al tema correlato e affine delle difficoltà relazionali con i coetanei e con i pari; anche laddove non veniva espresso direttamente, comunque, quel nucleo comune era, in filigrana, pressoché sempre presente. Le altre quattro tematiche emerse assorbono meno di un quarto delle segnalazioni. Spicca, in modo più evidente nel secondo grafico, che un sesto dei soggetti che hanno partecipato fosse alle prese con una difficile elaborazione di un lutto familiare, quasi mai recente. Fa riflettere su quanto indifesa questa generazione si possa trovare di fronte alla perdita di persone care, e in generale alla finitezza dei legami affettivi, e ci si chiede se la generazione dei loro genitori non lo sia altrettanto.
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  • Cambiamenti socio-culturali e problemi scolastici

    Introduzione

    Punto primo. Della presa d’atto del mutamento in senso migliorativo e di allargamento delle competenze richieste all’istituzione scuola, non più limitate alla trasmissione di sapere ma considerato luogo di evoluzione e crescita personale.
    La scuola italiana ha vissuto negli ultimi decenni un progressivo, rilevante mutamento di ruoli e funzioni; tale mutamento si è mosso nella direzione di un ampliamento sia dei suoi compiti formativi che, soprattutto, delle aspettative ad essa rivolte. Tale evoluzione si è verificata nell’ambito di un più vasto processo che ha coinvolto l’intera società italiana dal dopoguerra fino a oggi: si è assistito allo sviluppo e alla proliferazione di agenzie formative formali e informali che si sono affiancate a quelle tradizionali, talvolta integrandone le funzioni e completandole, più spesso erodendone l’importanza e l’autorevolezza; mentre le agenzie tradizionali, prima fra tutte la famiglia, ha vissuto a partire dagli anni settanta trasformazioni vistose e profonde, che hanno modificato al suo interno ruoli, regole, tempi di vita e stili educativi. La famiglia normativa ha lasciato il posto alla famiglia affettiva: la prima assumeva un ruolo forte di trasmissione di valori, obblighi morali e civili, laddove la famiglia affettiva mette al primo posto nella relazione coi figli gli aspetti emotivi, un tempo secondari, attraverso lo scambio spesso paritario di supporto, calore e convivialità; l’obbedienza ha ceduto il posto all’affetto, la gerarchia dei ruoli è stata soppiantata da un regime di sostanziale parità e vicendevole sostegno affettivo. Con il progressivo tramonto della distinzione tra sfera privata e pubblica si assiste all’avanzare di una nebulosa di fenomeni talvolta riuniti sotto la denominazione di “familismo amorale”: nel suo rapporto con la società la famiglia si trova più spesso in contrapposizione che non in dialettica continuità, e ciò ha contribuito non poco alle attuali difficoltà nel rapporto tra genitori e scuola.
    Si crea così intorno alla scuola un fenomeno che i sociologi hanno definito “affollamento di aspettative”: sono stati dirottati su di essa oneri, attese e problematiche che la famiglia demanda all’istituzione e che in precedenza non rientravano nel suo campo di azione, creando una situazione non priva di tensioni e di paradossi: nel momento stesso in cui la scuola italiana perdeva lo status di unico, superiore (talvolta elitario) luogo di istruzione e cultura, si è trovata però a vivere una nuova, complessa centralità, poiché nel proliferare caotico di linguaggi, media, agenzie formative e stimoli, è soltanto nella scuola che pare lecito cercare una bussola, una capacità di guida e orientamento consapevole che aiuti a districare il groviglio di messaggi cui le nuove generazioni sono esposte.
    La sfida a cui la scuola italiana è chiamata nel terzo millennio è quella di accogliere creativamente e fattivamente le richieste e le aspettative di cui è fatta oggetto, risolvendole nel senso di una accresciuta e rinnovata competenza. Questo processo di integrazione non può non implicare una rinnovata articolazione di ruoli e professionalità al suo interno. È in questo quadro che si rende necessaria l’introduzione dello psicologo scolastico come figura di sistema all’interno di una scuola che, oltre alle funzioni tradizionali, si è fatta luogo di crescita globale della persona nei suoi aspetti emotivi, relazionali e sociali. Il perseguimento di questo fine richiede non tanto e non solo la trasmissione di un sapere a livello cognitivo, quanto piuttosto la complessità e la ricchezza esperienziale che una rete articolata di professionalità può implementare; in questa rete appare imprescindibile la presenza di una figura, lo psicologo, portatrice di un sapere strategico al fine di promuovere uno sviluppo sano in tutti i diversi aspetti che vanno a costituire la premessa di una persona, un lavoratore e un cittadino pienamente realizzati.
    Il primo, importante ruolo dello psicologo nella scuola si va dunque a costituire come fondamentale contributo alla promozione di sviluppo, di salute psichica e di benessere personale e scolastico. Tale funzione si articola con specifiche modalità indirizzandosi a tutte le componenti della scuola: alunni, docenti e famiglie.

    Punto secondo. Della necessità di una particolare attenzione al disagio minorile, considerata la delicatezza del momento evolutivo nell’epoca moderna e i numerosi segnali d’allarme.
    Varie trasformazioni hanno profondamente mutato la società e la cultura educativa italiana di oggi; tra gli effetti che si registrano l’istituzione scuola registra anche una maggiore incidenza di forme plurime di disagio psico-sociale che si riflettono sul percorso scolastico non solo degli individui che ne sono portatori, ma anche del sistema sociale nel suo complesso
    Molteplici ricerche scientifiche mostrano che il tipo di sviluppo economico che caratterizza le nostre società si accompagna sul piano dello sviluppo psicosociale a quelle che vengono chiamate “nuove povertà”, il cui carattere di novità risiede nel fatto di avere natura assai più di ordine psicologico che economico, e di essere tanto più frequenti proprio nei contesti economicamente più ricchi: qui le nuove generazioni sono afflitte assai più spesso delle precedenti da fragilità emotiva, bassa tolleranza alle frustrazioni, difficoltà nel rispetto delle regole sociali, caratteristiche che si stagliano su uno sfondo di vissuti non ancora sopra la soglia della patologia, ma che appartengono a scenari per lo più ansiosi e depressivi.
    Bassa tolleranza alla frustrazione, difficile relazione con le regole e con l’altro da sé, forme striscianti di disagio che vengono alla luce di fronte al conseguimento del successo scolastico.
    Tra i ventuno Paesi OCSE l’Italia occupa il quinto posto per salute e sicurezza di bambini e adolescenti, il primo posto per qualità delle relazioni interpersonali in famiglia e con i pari, ma solo il ventesimo posto per benessere scolastico (Unicef, Centro di ricerca Ist. Innocenti, Report n° 7).
    Se dunque oggi la scuola è per il bambino o l’adolescente vittima di disagio un luogo da cui fuggire, considerato che il 35% (Eurispes, 2004), degli studenti delle scuole superiori hanno elevate difficoltà di inserimento nel nuovo ambiente scolastico questo significa la possibilità di individuare un luogo istituzionale e un tempo preciso, quello della formazione, per un intervento di prevenzione e intervento precoce sul disagio che significa anche un mutamento, una valorizzazione, un allargamento della missione sociale della scuola.
    Non si deve dimenticare che la dispersione scolastica è oggi una vera e propria piaga che riguarda nel complesso circa il 3% degli studenti secondo i dati nazionali Istat, ma che in alcune aree geografiche il numero dei soggetti che vengono qualificati come drop-out, fuoriusciti dal sistema della formazione arriva a punte del 6-8% e oltre. Questa sacca di minori privi di occupazione e di qualunque speranza sul proprio futuro crea un gigantesco serbatoio di disagio sociale.
    Appare quasi superfluo menzionare in questa sede i molteplici segnali di disagio di cui solo alcuni sono quantificabili.
    a) Tuttavia, i più gravi e preoccupanti, fermo restando il disagio scolastico e la dispersione, qui considerate come una causa di quanto segue, la delinquenza minorile vede un aumento esponenziale dei reati legati al disagio, che esitano in comportamenti contro la persona: lesioni personali, violenza sessuale, rapina hanno avuto un incremento dal 30% al 100% in dieci anni (dati verificabili sul sito Ministero della Giustizia) ma anche la produzione e spaccio di sostanze stupefacenti ha avuto un incremento costante del 100% e oltre dal 1990 al 2003, rispondendo in parte alla questione riguardante il “che fine fanno” i soggetti portatori di disagio che fuoriescono dal contenitore istituzionale scolastico.
    b) Altri indicatori preoccupanti di disagio in area minorile sono le forme striscianti di disturbi dell’alimentazione, che secondo le ricerche ABA riguarderebbero circa un soggetto su dieci appartenente a popolazione a rischio (soggetti di sesso femminile, età tra i 14 e i 18 anni).
    c) Ancora, pure nella difficoltà di reperire dati a conforto di quest’ultimo fattore, ritenuto tuttavia di comune conoscenza, si sono moltiplicate le paure legate alla scuola e le difficoltà di apprendimento, di relazione e comportamento che rimangono inspiegate in ottica didattico-educativa; la loro progressiva ampia diffusione le rende un fattore di forte impasse per il sistema scolastico e mette a dura prova le risorse emotive e didattiche di molti docenti. Queste situazioni, che sarebbero uno degli oggetti privilegiati del lavoro dello psicologo scolastico, attualmente finiscono invece per essere alternativamente trascurate (col rischio di aggravarsi) oppure trattate da psicologi privati a pagamento, riconfermando ancora una volta lo svantaggio delle fasce deboli.
    d) Infine, se i segnali di disagio e di carenza socio-psico-cognitiva provenienti dai minori, che sono anche al tempo steso alunni di scuola sono in buona misura percepiti e tematizzati in più ambiti, non possiamo ignorare il fatto che anche dai docenti provengono appelli che chiedono supporto per le crescenti difficoltà che si trovano ad affrontare in classe. Essi richiedono supporto per la relazione con gruppi classe complessi e strumenti avanzati di lavoro con alunni problematici. Le attuali condizioni di lavoro dei docenti sono da considerarsi a tutti gli effetti da mediamente a altamente stressanti, e alcuni autorevoli studi mostrano come proprio la categoria dei docenti presenti i maggiori rischi di patologie psichiatriche (Lodolo D’oria (ed.), Scuola di follia, Armando, Roma 2005).
    Tale situazione non può certo attribuirsi a singoli fattori, ma semmai a cause complesse.
    E’ tuttavia evidente che la capacità o viceversa l’incapacità dell’istituzione scuola di garantire il benessere degli alunni è divenuta centrale. L’istituzione scuola, a costante contatto coi minori è l’unica cui si può attribuire il compito di un’azione efficace sul piano della prevenzione della dispersione scolastica e di un disagio che può esitare in comportamenti autolesivi e antisociali, la promozione della salute e dell’apprendimento,
    Alla luce di quanto esposto finora appare chiaro che negli ultimi anni nella scuola italiana si sono moltiplicati i fattori che ostacolano il pieno sviluppo della persona; questi nuovi ostacoli sono in larga misura di ordine psicologico, ma affliggono soprattutto la vita degli studenti e in particolar modo di coloro che vivono le realtà sociali, culturali ed economiche più svantaggiate, allargando la forbice che le separa dalle categorie favorite.
    Lo psicologo scolastico si trova nelle condizioni di rimuovere gli ostacoli che limitano la realizzazione delle persone, e in particolare di quei soggetti deboli che sono gli individui in età evolutiva.

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  • Di cosa parliamo quando parliamo di Educazione Sessuale

    Di cosa parliamo quando parliamo di Educazione Sessuale

    Franco Nanni
    Approfitto dell’occasione offerta dalle polemiche sulla cosiddetta “teoria Gender” (polemiche male impostate contro qualcosa che in realtà non esiste, come ho cercato di dimostrare in un altro articolo) per porre la domanda (assai più seria) che forma il titolo di queste righe. Tutti, favorevoli e contrari all’educazione sessuale nelle scuole, sembrano sapere con assoluta certezza di cosa si stia parlando, ma senza mai definirlo con sufficiente chiarezza. Sarà perché provengo da una formazione molto attenta agli aspetti relativistico-antropologici che vanno tenuti presente quando si affronta tutto ciò che è culturale, ma conservo la netta sensazione che in verità non si sappia proprio cosa sia l’educazione sessuale, e anche laddove se ne diano descrizioni, esse siano alternativamente vaghe e generiche, o viceversa centrate su un nucleo valoriale forte inevitabilmente destinato a dividere tra chi “crede” e chi non crede. Vediamo tre esempi: 1. L’educazione sessuale persegue il fine di fornire ai giovani conoscenze, competenze, atteggiamenti e valori di cui hanno bisogno per determinare la propria sessualità e goderne – fisicamente ed emotivamente, individualmente e nelle relazioni. Considera la “sessualità” in modo olistico e nel contesto dello sviluppo affettivo e sociale. Riconosce che la sola informazione non è sufficiente. È necessario offrire ai giovani l’opportunità di acquisire life skills essenziali e di sviluppare atteggiamenti e valori positivi. (International Planned Parenthood Federation (IPPF) 2006) 2. È definito Educazione Sessuale un approccio, adeguato all’età e alla cultura, nell’insegnamento riguardante il sesso e le relazioni attraverso la trasmissione di informazioni scientificamente corrette, realistiche e non giudicanti. L’educazione Sessuale offre, per molti aspetti della sessualità, l’opportunità sia di esplorare i propri valori e atteggiamenti, sia di sviluppare le competenze decisionali, le competenze comunicative e le competenze necessarie per la riduzione dei rischi.” (UNESCO 2009). 3. Obiettivo e meta dell’educazione sessuale è lo sviluppo di una sessualità ordinata e matura in senso psicologico, etico e spirituale. Questa visione personalistica dell’educazione sessuale riceve maggior luce e consistenza se inserita nella concezione cristiana dell’uomo e del suo destino. [...] Se l’educazione sessuale è solo un aspetto dell’educazione integrale della persona, essa implica di necessità il riferimento a una concezione dell’uomo e cioè a una “antropologia”. (Chiesa Cattolica, 1980) Le definizioni 1 e 2, per vari aspetti simili ma non sovrapponibili, sono un buon esempio di generica vaghezza, unita ad un approccio più fortemente informativo e scientista nella seconda. La terza è un esempio ovvio di centratura su un nucleo valoriale (e non solo) assai forte. Di essa va sottolineata la grande onestà del riconoscere la ineludibile inscrizione di qualsivoglia modello di Educazione Sessuale in una visione più ampia dell’essere umano e delle sue manifestazioni, che la pone un gradino di saggezza sopra ogni ingenua aspirazione alla “neutralità”. Tornerò su questo punto più oltre. Assai spesso si sente invocare qualche forma di educazione sessuale sotto la spinta di eventi di cronaca, di comportamenti distruttivi, di fenomeni più o meno devianti; questa invocazione la connota più come un’ancora di salvezza contro il disorientamento e lo sgomento che come progetto organico e meditato. Ciò non significa che piani organici e ambiziosi non esistano: sulla base di linee guida stese dalla OMS si possono trovare in rete materiali molto dettagliati che aspirano a diventare uno standard per tutti i paesi occidentali, come ad esempio: Ufficio Regionale per l’Europa dell’OMS e BzgA - Standard per l’Educazione Sessuale in Europa. Vorrei allora provare a esaminare la questione da un punto di vista antropologico-culturale: credo di non essere lontano dal vero sostenendo che ogni comunità umana e ogni cultura che la permea e costituisce si misura con la consapevolezza (non necessariamente tematizzata a livello esplicito) di tre costanti delle quali voglio parlare senza preoccuparmi dell'una o dell'altra parola usata per definirli poiché quello che interessa qui è il fenomeno concreto sottostante e non la sua concettualizzazione. Vediamole:
    • c'è una potente forza attrattiva (comunque la vogliamo chiamare e definire) che porta gli individui (assai spesso, ma non necessariamente, di sesso diverso) a cercare reciprocamente il piacere sessuale.
    • la ricerca e la pratica del sesso tra due individui porta di norma alla formazione di una sorta di legame che in forme molto variabili tende a richiedere una certa esclusività e continuità. (Ci sono legami bidirezionali di tipo cronologico tra il raggiungimento del piacere in coppia e la presenza del legame. La forza attrattiva della ricerca del piacere sessuale mediato da un'altra persona può essere primaria e preesistente rispetto alla formazione del legame (oggi sappiamo che ciò avviene con la mediazione dell'ossitocina) ma le culture lavorano alacremente a modificare e regolamentare in diversi modi la successione cronologica di questi due aspetti.)
    • Appare chiara in ogni cultura la necessità di normare l'esercizio della sessualità la cui pratica indiscriminata e indifferenziata risulterebbe assai probabilmente distruttiva rispetto al legame più ampio che forma la collettività. Un altro motivo a favore della normazione dell'attività sessuale e dei legami affettivi adulti riguarda naturalmente la conseguenza probabile del coito ovvero la procreazione.
    L'antropologia culturale ci riporta molte diverse maniere di rispondere alle questioni poste dagli elementi costanti appena elencati; ma l'aspetto davvero costante che attraversa tutte queste diversità è il fatto che nessuna cultura pare abbia ignorato o lasciato al caso o a una fantomatica “spontaneità” ciò che riguarda la sessualità e il legame uomo-donna (ed eventualmente altre forme). Oltre alle differenze di contenuto tra una e l’altra risposta, ve ne sono di forma e estensione: alcune culture sono propense a normare tanto, definendo in modi dettagliati tempi, luoghi e regole per il corteggiamento, per la relazione, ecc., altre a normare meno, lasciando tra una regola e l'altra spazi e interstizi di libertà o di arbitrio, talvolta riconosciuti, talaltra confinati nel segreto. Guardata sotto questo punto di vista la cosiddetta educazione sessuale di cui tanto si parla nei Paesi occidentali altro non sarebbe che “una” risposta alle questioni poste dai tre elementi costanti suddetti. Nelle sue varie forme, essa sembra figlia della nostra società progressista, positivista un po' scientista nonché democratica e razionalista che si è fatta avanti gradualmente nel corso del ventesimo secolo in occidente. Il frutto più tipico di questa cultura è la modalità ancora oggi praticata (a dispetto delle dichiarazioni di intenti come quello della IPPF) che sostiene un approccio essenzialmente (anche se non unicamente) informativo rispetto alle questioni della sessualità e aree limitrofe della relazione umana. Una versione più antica, (molto in voga negli anni ‘70) prevedeva quasi una mera informazione anatomo-oleodinamica (mi si consenta l'ironia) unita alla storica educazione demografica della pionieristica organizzazione italiana AIED, comunque tuttora operante sul nostro territorio. C’era in quell’approccio una aspirazione ingenua all’indipendenza da valori, ideologie o atteggiamenti preconcetti al fine di rendere libere le persone di vivere la sessualità come desideravano. L’ingenuità non era solo la presunta autonomia da valori e schemi interpretativi ma anche e forse soprattutto la presunzione che vi fosse un modo spontaneo e naturale (in qualche misura inscritto nella personalità dell'individuo) di vivere la sessualità, quasi potesse venir depurato da ogni altra influenza esterna. Il problema della presunta Neutralità è complesso ma provo a sintetizzarlo in due gruppi di enunciati che sono assiomatici nei rispettivi ambiti, ossia le definizioni 1, 2 e 3: 1. Io ti informo con nozioni scientificamente corrette e “non di parte”; poi tu sceglierai come muoverti nel campo della sessualità, e compirai tali scelte usando come criteri.... cosa? Questo non viene definito, ma fa riferimento a un qualcosa di “altro” in cui compare la parola “valori”: in (1) essi vanno “sviluppati”, lasciando intendere che l’individuo vi giochi un ruolo come costruttore-ricercatore; in (2) i valori vanno “esplorati”, lasciando intendere che essi entrino a far parte del sapere della persona per altre vie che non siano l’Educazione Sessuale stessa. Si sottintende però comunque che i valori sono entità relativistiche, mentre la Educazione Sessuale non è relativa ma in qualche modo neutra e assoluta, o quantomeno di un livello logico superiore. Per quanto non venga esplicitato, in filigrana sembra di poter leggere l’idea che (a) ogni persona porti in sé un embrione molto soggettivo di “buona sessualità” che è suo diritto (e dovere, in un certo senso) cercare e/o sviluppare, e (b) che nel campo socio-culturale esistano o siano reperibili valori “pronti all’uso” (chiamiamoli metaforicamente “proteine”) o eventualmente gli amminoacidi necessari alla loro sintesi. 2. Io ti trasmetto una visione dell’uomo e all’interno di essa una visione della sessualità e ti trasmetto quindi consapevolmente ed esplicitamente valori e norme etiche. Ti preciso anche che non esiste una educazione sessuale neutra, ma solo una educazione fortemente collocata dentro una antropologia e un orizzonte valoriale. Sottintendo però che i valori non sono entità relativistiche ma degli assoluti: le norme che regolano i costumi e i comportamenti sessuali sono naturali e primarie, espressione della struttura dell’uomo. (quest’ultima frase in corsivo è tratta dal documento della Chiesa Cattolica del 1980). Simmetricamente, qui appare in filigrana l’idea che il campo socio-culturale sia, in ambito valoriale, un deserto o una palude tossica, e che solo il magistero della Chiesa possa salvare da ciò. Dovrebbe saltare all’occhio una contraddizione che accomuna 1 e 2 sia pur su concetti e con forme differenti: entrambe si servono della coppia concettuale “relativistico vs assoluto” tentando di stare da una parte sola, ma finendo per ricadere dall’altra, cosicché il concetto che si vuol cacciare dalla porta rientra dalla finestra. Non è mia intenzione portare avanti un confronto tra visioni così incompatibili (nei contenuti) ma simili (nella forma concettuale e nelle contraddizioni interne), quanto piuttosto andare alla ricerca di una risposta al titolo dell’articolo, percorso rispetto al quale finora la disamina delle varie definizioni ci ha aiutato, ma che è giunto il momento di superare. A ben vedere, infatti, le definizioni fin qui analizzate finiscono con l’essere complementari rispetto alla visione antropologica. Secondo quest’ultima ci sono due questioni, una “globale” (il problema dell’impulso sessuale e tutto quello che ne consegue) e l’altra “locale” (quale risposta specifica ha elaborato questa specifica cultura per amministrare il problema stesso). Le definizioni IPPF e UNESCO descrivono questa mappa ma si guardano bene dal prendere parte alla soluzione (necessariamente locale), la Chiesa invece prende posizione localmente e fornisce una chiara risposta, non facendosi carico ovviamente di tutta la complessità che resta fuori dal campo locale. Potrà essere criticabile o da aggiornare, ma è senza dubbio strutturalmente una risposta nei termini previsti proprio da quella antropologia culturale relativistica che la Chiesa condanna. Ed è anche, volendo, una risposta alla nostra domanda. Soddisfacente o no che sia (per me non lo è assolutamente) essa è comunque una risposta. E noi, come e dove la cerchiamo, una risposta soddisfacente? Se stiamo cercando una risposta globale, dovremmo tornare alla realtà e renderci conto che una risposta globale non v’è e non può esserci (non, almeno, fin quando l’intero mondo non sarà conquistato dal Califfato Islamico e assoggettato con le armi alla sua morale!). Si potrebbe inoltre obiettare che perfino le risposte locali più affermate non sono una rappresentazione dell’esistente (ci mancherebbe!) ma indicano un orizzonte etico che, sia pur con un certo grado di pudore e segretezza, ammette scostamenti dal "mainstream". Tuttavia credo non si ricavi nulla ricadendo nella datatissima contrapposizione tra “verità” e “ipocrisia borghese” così forte nella cultura post sessantottina. Credo che la nostra ricerca debba procedere per gradi senza cadere in ulteriori dicotomie. Prima di tutto occorre riprendere una concettualizzazione peraltro ben nota, ma il cui significato temo venga sottovalutato, tra Educazione Sessuale formale (o intenzionale) e informale. Finora abbiamo parlato della prima, ovvero di interventi pensati e strutturati. Nessuno osa negare che vi siano altre fonti: prima di tutto gli esempi reali che il bambino e poi l’adolescente sperimenta e vede intorno a sé, poi le narrazioni cinematografiche (in senso lato, anche televisive, telematiche (web)... ecc.), dalle quali si impara come si seduce, come ci si innamora, come ci si prende e come ci si lascia, come si piace, come si desidera... ecc. Quando l’educazione sessuale formale arriva, entra in un ambito dove i media hanno già stratificato molte rappresentazioni, particolarmente resistenti e solide proprio perché acquisite in modo lento, ripetitivo, semi-conscio e non pensato. Incidere su simili costellazioni di rappresentazioni è a mio parere una impresa assai ardua, mentre, al contrario, esse sono state in grado di erodere apparati morali granitici generando evoluzioni del costume impensabili prima dell’avvento dei mass media. L’Educazione Sessuale informale è implicita, non intenzionale e inscritta nei comportamenti praticati nella collettività; è presente in tutte le culture, ma sembra che sia assai pervasiva e articolata nella nostra cultura così intrisa di comunicazioni di massa che ad ogni istante propongono immagini di corpi, di relazioni, di storie di amore, seduzione e sesso. Inoltre se in culture locali più ridotte e più semplici chi vi appartiene riscontra comportamenti sostanzialmente coerenti gli uni con gli altri, nel nostro contesto occidentale industrializzato e massmediale chiunque volesse trarre qualche costanza e qualche coerenza dall'insieme polifonico e vasto di condotte differenti troverebbe un'impresa davvero ardua se non impossibile. Siamo davvero una società nella quale convivono una accanto all'altra morali sessuali, condotte e rappresentazioni della relazione stridentemente diverse tra di loro. Le definizioni UNESCO e IPPF sembrano puntare sul fatto che fornendo informazioni di fondo corrette i nuovi adolescenti siano in grado di farsi largo in questa polifonia rintracciando valori a loro consoni. Temo proprio si tratti di una pia illusione. Il primo vero passo da compiere credo sia ammettere che non si dà alcuna educazione sessuale in qualunque accezione senza fare riferimento a una visione dell'uomo. Fortunatamente disponiamo oggi, all'inizio del terzo millennio, di notevoli conoscenze scientifiche e antropologiche che possono aiutarci a non cadere nei due classici estremi: da una parte la visione apocalittica che suppone che l'essere umano, se non viene incasellato dentro una norma esterna dichiarata e cogente, finisce nell'anomia, nell'anarchia, nel disordine, nell'entropia, e in definitiva nella mera feroce distruttività. Ne è un triste esempio l'apologo distopico “Il signore delle mosche” di Goldring. Dall'altro lato una visione pacificata e New Age che vede l'essere umano come portatore di una sorta di verità assoluta interna, quasi un talento, che deve essere scoperta e estrinsecata e che è in grado di ricreare armonia, scelte e azioni corrette e quant'altro. Credo che appaia abbastanza ovvio che alla prima visione si attaglia meglio una impostazione come quella della Chiesa cattolica e alla seconda meglio quelle di UNESCO e IPPF. Se c'è una cosa che lo studio integrato dell’uomo operato da neuroscienze, etologia umana, psicologia e altre discipline limitrofe ci ha detto, è che entrambe le previsioni poc'anzi citate sono clamorosamente false. Semplificando molto potremmo dire che le discipline che studiano l’essere umano ce lo descrivono in una condizione intermedia tra i due estremi ovvero dotato impulsi, tutt'altro che tabula rasa, ma anche animato dal bisogno e dalla capacità di interpretare e categorizzare la realtà, di individuare percorsi dotati di senso e in qualche modo normativi; esposto tuttavia al rischio di una carenza di rappresentazioni e norme che riescano a dare un costrutto a una realtà caotica. Un simile stato di cose ci spiega come sia possibile nella società liquida di oggi che un numero ingente e importante di persone riesca comunque a gestire in modo sufficientemente ordinato la propria sessualità in mancanza di un orizzonte etico vincolante e forte. A fianco di ciò non ci stupisce la presenza di crescenti manifestazioni di disregolazione emotiva e degli impulsi come una delle cifre più pregnanti del nostro tempo. Se è ammissibile tentare una sintesi molto ampia credo si possa dire che le nostre società sono contraddistinte simultaneamente da un allergia diffusa verso regole nette e divieti, e da una ricerca costante di una nuova legge che venga a salvarci dalla confusione e dall’anomia, come Massimo Recalcati ci descrive nel suo Complesso di Telemaco:
    “Ciascuno rivendica il proprio diritto alla felicità come diritto di godere senza intrusioni di sorta da parte dell’Altro. [...] Edipo non sa essere figlio. Egli vorrebbe negare ogni forma di dipendenza e di debito simbolico nei confronti dell’Altro. [...] L’attesa di Telemaco non è attesa di una Legge anonima, non è attesa dell’applicazione routinaria della Legge del Codice. Egli attende il ritorno di un padre. [...] le giovani generazioni di oggi assomigliano più a Telemaco che a Edipo. Esse domandano che qualcosa faccia da padre, che qualcosa torni dal mare, domandano una Legge che possa riportare un nuovo ordine e un nuovo orizzonte del mondo.” Domandano un Padre come “colui che offre in eredità il senso della Legge non come castigo ma come possibilità della libertà, come fondamento del desiderio.”
    Cosa si può fare allora in questo ambito per costruire un'idea sensata di educazione sessuale? Io credo si debba partire dalla raccolta dei problemi con i quali si confrontano i nuovi adolescenti ovvero quelle questioni aggiuntive che definiscono in modo più specifico il problema globale descritto dai nostri tre elementi costanti. Raccoglierli tutti, classificarli ed unirli in questioni di fondo sarebbe probabilmente un lavoro immane da condurre da parte di equipe formate da clinici, sociologi, educatori e altre figure a contatto con questa fascia di età. Provo a stilare un elenco inevitabilmente parziale e approssimativo che spero possa costituire un invito ad altri a proseguire e ampliare l'opera. Ecco dunque, in base alla mia esperienza di clinico, i problemi che i nuovi adolescenti affrontano (per lo più senza risolverli, ammesso che una soluzione vi sia).
    • Il legame affettivo è spesso temuto come una malattia che sarebbe meglio non contrarre; una volta che esso sia presente, è sbilanciato verso il polo dell’ansia di separazione, dell’angoscia della perdita, che si unisce a fantasie altrettanto estreme di autosufficienza. In mezzo, direi stritolato, sta il desiderio, il grande assente. Il corpo non è luogo di sensazioni e di piacere, ma è soggetto a un feroce voyeurismo finalizzato a un giudizio severo. O il corpo è avvertito come bello, e da ostentare, o non è. Se si prende la prima opzione l’esibizione delle forme è spesso ipertrofica e imbarazzante.
    • Lo statuto dell’attività sessuale è piuttosto indefinito e plurimo: bene di consumo, godimento quasi solipsistico con il corpo dell’altro ma non con l’altro, forma materialistica e meno impegnativa di intimità senza legame.
    • Si riscontra assai di frequente il vissuto (e/o la paura) di non essere amati; questo accompagna la ricerca affannosa di amore e riconoscimento talvolta nella delirante aspirazione a ottenere tutto ciò al di fuori di un legame affettivo strutturato. D’altronde è davvero arduo sviluppare rapporti sociali reciprocamente impegnativi nel contesto socioculturale attuale (si veda ad esempio L. Gallino, Finanzcapitalismo, 2010)
    • Difficoltà rilevanti nella gestione della possessività che talvolta è indiscriminata e aggressiva, talaltra rifiutata come una malattia.
    • Viene assai spesso scambiato per verità rivelata l’assioma un po’ “New Age” che, partendo dal classico “va dove ti porta il cuore”, sottintende che nel cuore vi sia sempre una posizione chiara e preminente, priva di ambivalenze, e che essa vada scoperta, ascoltata e agita senza mediazioni. Un simile assioma porta a situazioni di blocco e di sofferenza ogniqualvolta l'ambivalenza e l'incertezza si presentano sulla scena.
    • È diffusissima la difficoltà a rapportarsi con i propri impulsi e le proprie emozioni, sospesi tra azione impulsiva e non pensata (acting out) e evitamento emozionale, in particolare delle emozioni sperimentate come negative. Da sottolineare il fatto che l’acting out più che tradurre in atto l’emozione persegue il fine (di fatto irraggiungibile) di eliminarla quando questa è avvertita come negativa. Il dolore psichico infatti è rappresentato come un veleno da eliminare, e come segnale di "problema da risolvere". Lo stesso destino tocca alla tristezza, agli stati contemplativi e a qualunque altra condizione che non sia una sorta di stolida e maniacale euforia che rende comunicativi, socievoli, brillanti, spiritosi e attraenti.
    Questa sorta di elenco di problematiche diffuse dovrebbe far riflettere. Assai poche delle sue voci potrebbero giovarsi significativamente di approcci informativi: ci troviamo di fronte a difficoltà che sono in larghissima parte riconducibili a due ampie costellazioni di cause: la cultura diffusa, le rappresentazioni egemoniche e predominanti del sé, dell’essere umano, della vita nelle nostre società a capitalismo finanziario maturo le vicissitudini complessive riguardanti le dinamiche di attaccamento e i modelli interni (IWM) da esse derivanti. Sarebbe assai vasto e lungo esaminare in dettaglio queste due costellazioni di cause che portano gli adolescenti a vivere determinate difficoltà nella vita amorosa e sessuale. In questa sede appare cruciale osservare che si tratta, come anticipato poc’anzi, di cause sulle quali incide davvero poco l’approccio informativo; ci vogliono esperienze concrete, e tante, collocate anche nella primissima infanzia, ma non solo in quel periodo, e ci vogliono capacità di riflessione non banali e non scolastiche per guardare con sufficiente disincanto le rappresentazioni della nostra cultura in quanto rappresentazioni e non in quanto “realtà” o “evidenze”. E forse, fantasticando, occorrerebbe una riflessione su quali e quanti mezzi di comunicazione raggiungono la massa dei giovanissimi, plasmando le visioni diffuse di sessualità e amore e non solo, che vanno a costituire, insomma, una sorta di “antropologia” implicita, incorporata, “embedded” nella mole enorme di messaggi e narrazioni cui ciascuno di noi è esposto; si tratta quindi di una antropologia “nascosta” poiché si presenta sotto mentite spoglie. “E quindi?” potrebbe chiedersi chi ha eroicamente letto fin qui. Mi rendo conto che lo scenario appare scoraggiante: se il nostro fine è condurre il maggior numero di adolescenti verso una sessualità/affettività non scisse, integre, autentiche e portatrici di ricchezza interiore e relazionale (che non significa “assenza di dolore”!), dovremmo in realtà occuparci poco di educazione sessuale di massa nelle scuole, e assai di più di come è organizzata la nostra civiltà incapace di cura, e che genere di esperienze di abbandono e disamore infligge ai piccoli sotto falsi abiti di “esigenze lavorative”, e con quanti e quali narrazioni “tossiche” su cosa siano il sesso e l’amore riempiamo le loro povere menti. Dovremmo, insomma, occuparci molto di Educazione Sessuale Informale. Se invece ci preme di più sentirci anime belle che hanno prodigato sforzi educativi per le nuove generazioni, allora possiamo anche continuare a fare le stesse cose di sempre, qualche bel discorso di qualche esperto nelle classi e l’anima l’abbiamo salvata. Oppure, se uno proprio nelle classi ci vuole entrare ma cercando di far meglio? Alla luce di tutto quanto son venuto rimuginando fin qui, direi che per provare a realizzare un contributo a una educazione sessuale formale all’altezza della sfida, occorrono molti elementi che provo a elencare.
    • Le informazioni (psicologiche, fisiche, mediche, ecc) si portano con sé ma vanno usate solo al bisogno e con moderazione.
    • Il gruppo dei destinatari degli interventi dovrebbe essere piccolo (5/10 ragazzi) e con un discreto grado di confidenza e fiducia interna.
    • Iniziare con un (quasi)-focus-group, facendo emergere vissuti, questioni, nodi irrisolti, nonché i tentativi (anche fallimentari) di venirne a capo.
    • Entrare in sintonia con quanto emerge, vibrare insieme, insomma, dare l’esempio sul fatto che la sintonia emotiva esiste, che può essere praticata, che non è un sogno. Che è possibile essere compresi. In questa fase vanno usate grandi dosi di empatia: l’empatia non è tutto e non è la medicina per ogni male, ma è l’eccipiente necessario e imprescindibile per ogni altro mezzo.
    • Quando emergono vicende venate di dolore, occorre con grande tatto restare su quel dolore per mostrare che, se non se ne ha paura, il dolore può essere tollerato e vissuto, che si può stare a contatto con esso quanto basta a viverne la parte che ci tocca in sorte. Che il dolore, per dirla con gli psicoanalisti, non va evacuato ma vissuto e metabolizzato.
    • Quando nei problemi sono implicate rappresentazioni di origine culturale, si deve operare al fine di separare le rappresentazioni dall’esperienza interna, valorizzando soprattutto la seconda come sorgente primaria. Far emergere lo stato emotivo sottostante, e le spinte all’azione che suscita. Isolarne le componenti “narrative”. Un esempio banale: «dici di essere innamorata. D’accordo, ma come te ne accorgi? Cosa accade dentro di te che ti fa dire “sono innamorata”?» Lì si ascoltano risposte più interessanti, del tipo «Lo penso spesso», «Sento il bisogno di stargli vicino», «Quando è lontano non mi sento bene», ecc. Spesso (per fortuna non sempre!) cose del genere vengono elencate come sintomi di una brutta malattia, e allora occorre lavorare duro per trasmettere l’idea che è “soltanto” quell’insieme di reazioni molto umane che ci siamo abituati a chiamare amore. Oppure ancora: «Credevo fosse amore, invece era solo sesso». Anziché seguire la persona e gli altri interlocutori come se avesse descritto obiettivamente una situazione, occorre invece incalzare con domande intriganti che facciano emergere le narrazioni: «Ah, e come ti sei accorto della differenza?» «E come sarebbero andate le cose se fosse stato amore?» e tante, tante altre domande per aiutare le persone a focalizzarsi maggiormente sulla esperienza primaria, e a considerare parole, rappresentazioni e narrazioni come strumenti magari utili ma distinti dall’esperienza.
    • Chi entra in classe dovrebbe fornire in diretta un esempio di “sicurezza” inteso anche come sicurezza dell’attaccamento, ovvero sentirsi a proprio agio nel trattare le più diverse e talvolta toccanti emozioni, gli argomenti più scabrosi, sentirsi a proprio agio in ogni genere di descrizione di legami e di paura dei legami, non intimorito dalla dipendenza affettiva, cose che sa fare naturalmente una persona che i teorici dell’attaccamento chiamerebbero “Secure/Autonomous”.
    Tutto questo elenco dovrebbe avere come risultato la salvezza del desiderio, ovvero, parafrasando Recalcati, trasformare e salvare da sé stesso un adolescente “senza desiderio, plastificato, apatico, perso nel mondo fagico degli oggetti, insofferente a ogni frustrazione”. “Come avviene la trasmissione del desiderio da una generazione all’altra? Attraverso una testimonianza incarnata di come si può vivere la vita con desiderio.” Occorre dunque tantissima modestia e umiltà, tanta presenza, lo sforzo di esserci, per farsi strada in mezzo a solide e spesse stratificazioni di rappresentazioni create dall’educazione sessuale/affettiva implicita che plasma gli individui assai prima e profondamente di quanto non possano fare le cosiddette informazioni. Dopotutto l’individuo è formato nella sua interezza da una immane pluralità di istanze, dall’espressione genica alle esperienze lungo l’arco di vita, le relazioni, i dolori e le gioie... l’educazione sessuale formale è una goccia in questo mare, ma se dobbiamo farla, almeno facciamola dopo una riflessione all’altezza del compito. E spero che, dopotutto, si possa reperire in queste righe un barlume di risposta a chi ci chiede di cosa parliamo quando parliamo di Educazione sessuale.
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  • Morire di ecstasy o morire di dolore?

    Dietro e prima l’abuso di sostanze c’è un malessere diffuso, uno stato depressivo di massa dovuto alla crescente incapacità di fronteggiare il normale dolore psichico, avvertito come un corpo estraneo da eliminare. A fianco dell’abuso di sostanze c’è la proliferazione dei mezzi di distrazione e divertimento di massa che nasce per soddisfare un insaziabile appetito di un “altrove”.

    Proviamo a immaginare… se un inverno nevicasse per un mese di seguito, giorno e notte: forse cominceremmo a vedere agli angoli di strada venditori improvvisati di pale, badili, spazzaneve e altri marchingegni; inoltre, si può supporre, dopo un po’ troveremmo anche spacci illegali di macchine spazzaneve costruite alla meglio in laboratori improvvisati, e, essendo non omologate dalla legge, vendute al mercato nero a caro prezzo. Probabilmente qualcuno a un certo punto potrebbe farsi male usando uno di quegli aggeggi poco sicuri e sarebbero in tanti a scagliarsi contro i costruttori e venditori abusivi di marchingegni potenzialmente pericolosi. Tuttavia con un po’ di sforzo non sarebbe difficile capire che c’è uno sfondo a tutto questo scenario: una straordinaria nevicata completamente fuori dai parametri normali, una nevicata che ha creato bisogni eccezionali che un gran numero di persone si è messa a soddisfare con mezzi non sempre leciti. Nasce un bisogno nuovo e forte, ed ecco che si crea un mercato. Questo non giustifica gli abusi, ma rappresenta uno scenario imprescindibile in cui inquadrare gli eventi e cercare eventuali soluzioni.
    Leggendo i tristi commenti ai tre decessi di giovanissimi nelle ultime settimane ho come l’impressione che, sia pur con direzioni diverse, molti finiscano per scagliarsi, per restare nella metafora, contro i venditori abusivi di pale e spazzaneve e che nessuno sembri rendersi conto che bisognerebbe guardare un po’ più in là, alla quantità esorbitante di neve che sta sulle strade. Fuor di metafora: che cos’è questa neve? è una sorta di stato depressivo di massa che riguarda giovani, meno giovani e adulti. Ma che cos’è dunque questa depressione di massa e quali sono le sue componenti? Il punto centrale è rappresentato da una cultura, la nostra, completamente incapace di abilitare i suoi appartenenti a far fronte (coping) alle difficoltà normali di ordine emotivo che possono capitare nel corso della vita. I componenti di questa cultura sono vari, ma il fulcro è la rappresentazione del dolore psichico come un veleno da eliminare, e come segnale di “problema da risolvere”. Specie tra i giovani, lo stesso destino toccherebbe alla tristezza, agli stati contemplativi o qualunque altra condizione che non sia una sorta di stolida e maniacale euforia che rende comunicativi, socievoli, brillanti, spiritosi e attraenti. La potenza attrattiva e prescrittiva di questo standard di capacità comunicative e sociali è particolarmente pressante per le nuove generazioni che sembrano imprigionate da un “dover essere” finalizzato a diventare “popolari” tra i pari età. Si tratta di una condizione non alla portata della maggior parte degli individui, in particolare senza l’assunzione di sostanze stupefacenti, soprattutto stimolanti. “Devo stare bene”, “perché non sto bene?”, ecco le domande ricorrenti tra gli appartenenti a più generazioni.
    Questo stato di malessere rappresenta un problema per tutti, ma i comportamenti in reazione ad esso sono in larga parte diversi per ciascun gruppo di età, e ci sono differenze anche nelle sostanze utilizzate, sia pur con alcune aree comuni: i giovani ricorrono prevalentemente ad alcol e sostanze illegali, mentre gli adulti, oltre all’ubiquo alcol, fanno maggiore uso di sostanze legali come antidepressivi e ansiolitici, le cui cifre di vendita sono una voce in costante crescita. Ecco alcune citazioni da quotidiani italiani degli ultimissimi anni: «Psicofarmaci, oltre 11 milioni di italiani li usano contro stress e depressione.» «Il trend nazionale in forte aumento del consumo di farmaci antidepressivi, che è salito del 310% (cioè più che triplicato) dal 2000 al 2008, confermato dai dati dell’ultimo rapporto Osservasalute che vede negli ultimi anni un costante incremento simile in tutte le regioni.» La cifra comune, dunque, è il tentativo di allontanare il dolore psichico meglio e prima possibile.
    Una serie stratificata di mutazioni culturali ha fatto sì che un’intera popolazione (con l’esclusione, ritengo, dei più anziani) sia oggi portata a preoccuparsi costantemente del proprio stato psichico sulla base di un teorema: se sono “nel giusto”, se ho fatto scelte giuste, se sto agendo bene e vivendo bene allora devo sperimentare benessere psichico. C’è un ovvio corollario: se sperimento malessere psichico evidentemente esiste un problema e questo problema va risolto secondo due direttrici spesso sommate insieme: (a) il tentativo di estinguere rapidamente e totalmente il dolore e il malessere psichico stesso, e (b) perseguire continuamente scelte di vita, comportamenti, consumi e attività dai quali ci si attende l’anelato benessere psichico. La prima direttrice porta direttamente a condotte problematiche come autolesionismo, consumo di stupefacenti, comportamenti estremi. La seconda direttrice, più indiretta, costituisce la chiave dell’apertura di sempre nuovi mercati che vanno naturalmente degli stupefacenti stessi allo smodato consumo di divertimenti di ogni genere, alle più fantasiose terapie olistiche, al marketing del benessere, fino ai capi di abbigliamento e perfino alla chirurgia estetica; un posto d’onore è rappresentato dall’immenso ambito ludico-elettronico dei giochi digitali, sia su consolle dedicate che su computer, tablet e telefonini, un apparato di distrazione di massa le cui dimensioni forse tendiamo a sottovalutare; basti pensare che la sola GameStop, nel 2007, ha fatturato 5,56 miliardi di dollari. Nello stesso anno, per la prima volta nella storia, l’industria dei videogiochi ha superato come volume d’affari l’industria musicale. Grand Theft Auto 5, (un gioco i cui protagonisti sono tre delinquenti di cui uno psicopatico che si aggirano per una metropoli americana uccidendo e compiendo altri crimini) con un budget di 260 milioni di dollari stanziati da Rockstar Games, ha incassato più di 800 milioni nelle prime 24 ore dopo la messa in vendita e dopo soli tre giorni ha raggiunto il miliardo di dollari e i 15 milioni di copie vendute. (fonte: Wikipedia). Se consideriamo gli stati di coscienza di elevatissimo estraniamento dal mondo circostante che il giocatore raggiunge, e li affianchiamo con quelli causati dal consumo di sostanze stupefacenti, viene da chiedersi con una certa trepidazione quanti milioni di persone nel globo si trovino per diverse ore al giorno completamente altrove con la mente. Da che cosa fuggono? Che cosa è questa sete di distrazioni? Che cosa è questa impazienza divenuta carattere universale? Il sociologo Luciano Gallino, riepilogando diversi altri studi, parla di “corrosione del carattere” per descrivere gli effetti sulla personalità che provoca il lavoro del “capitalismo flessibile”, dove tutti e tutto – a cominciare dal capitale – si dimostrano impazienti; la società intera appare devota al breve termine (dei contratti, dei progetti, dei guadagni possibili); le istituzioni, a partire dalle imprese, appaiono in uno stato di costante frammentazione o vengono di continuo ridisegnate. In tali condizioni risulta improbo per la persona al lavoro sviluppare un senso di identità, poiché ciò richiede una lunga e paziente ricerca in se stessi. Perseguire scopi a lungo termine appare improponibile. Diventa pure arduo, sul lavoro e nella comunità, sviluppare rapporti sociali reciprocamentre impegnativi. (in: L. Gallino, Finanzcapitalismo, Einaudi). Alla luce di questa ultima citazione diviene chiaro come sia assai velleitario auspicare il ritorno dei “buoni vecchi sistemi educativi più rigidi” come panacea; un sistema educativo nasce e si sviluppa in un contesto, in un quadro di personalità (di chi educa come di chi viene educato) anche culturalmente delineata, e non sono possibili “esportazioni” di peso di sistemi che sono figli di altre epoche e culture, così come non potremmo rilanciare a livello di massa, per fare un esempio pittoresco, il mestiere di spazzacamino o di maniscalco. Nel nostro mondo impaziente e intollerante dell’attesa e della frustrazione possiamo al massimo apportare qualche modesto correttivo al paludoso permissivismo diffuso, ma nulla più. Il quadro è desolante.

    Riprendendo il discorso principale, abbiamo appena descritto una rappresentazione distorta del dolore psichico come corpo estraneo da eliminare. Ci si domanderà se tale dolore abbia eventualmente delle cause particolari e specifiche di questi anni, e se esso sia aumentato nel tempo; la risposta è articolata. Le cause in sé e per sé non sono particolarmente “nuove” e per lo più fanno parte dei percorsi esistenziali caratteristici degli adolescenti da un lato e degli adulti dall’altro. Nel caso degli adolescenti però ci sono dei fattori che tendono a esacerbare dolori che sarebbero normali per qualità ma divengono eccezionali per quantità e intensità nonché per frequenza; ad esempio, il desiderio di piacere agli altri, di essere desiderati, il timore di essere brutti o deformi è riportato nella letteratura sull’adolescenza da decenni, ma oggi le angosce legate a queste paure sono diventate molto grandi e spesso persecutorie a causa dei comportamenti talvolta feroci degli altri adolescenti verso gli stessi pari età. Inoltre questa fascia di età sembra vedere (molto più che in precedenza) il dolore psichico come qualcosa di insormontabile. Alcune ricerche sull’attaccamento sembrano dimostrare che anche aspetti biografici oggi assai diffusi come il distacco precoce dalla madre per cause lavorative e le crescenti condizioni di stress di tanti genitori costituiscono un fattore rilevante di vulnerabilità allo stress e alle difficoltà psicologiche nelle nuovissime generazioni.
    È in questo panorama culturale, in queste immagini dell’individuo e del benessere che si inserisce questo stato depressivo di massa contraddistinto da umori negativi, senso di colpa e inadeguatezza per il fatto di provarli, senso di impotenza, di incapacità, di inadeguatezza globale, fantasie di auto-eliminazione o di grandiosità, bisogno spropositato di divertimenti e distrazioni come “antidepressivo sociale”, e infine appiattimento della prospettiva temporale sul presente con una visione del futuro assente, buio o indecifrabile. La sofferenza psichica ha assunto ormai lo status di “anormalità”, se non anche di patologia, comunque di anomalia da estirpare. In realtà le cose stanno diversamente, come notano Steven C. Hayes e colleghi in ACT (Raffaello Cortina), «Se sommiamo tutte le persone che sono o sono state depresse, tossicodipendenti, ansiose, arrabbiate, autodistruttive, alienate, preoccupate, compulsive, lavoro-dipendenti, insicure, terribilmente timide, divorziate, evitanti l’intimità e stressate, siamo costretti a giungere a una conclusione sorprendente, vale a dire che la sofferenza psicologica è una caratteristica fondamentale della vita umana.» La cosa triste è che coloro che non partono da questo presupposto sono condannati a soffrire di più.
    Cosa cercano dunque gli adolescenti nelle nottate del massimo divertimento, nello stordimento dovuto a uso e abuso di diverse sostanze? Non cercano in definitiva sollievo per gli stati negativi, non cercano forse la capacità di rapportarsi agli altri in modo brillante e seduttivo sconfiggendo la solitudine e la disistima? non cercano la distrazione, il divertimento come narcotico rispetto alla impossibilità di sopportare la propria stessa mente addolorata? Credere di poter semplicemente arrestare questa ricerca affannosa di soluzioni al problema rappresentato dalla depressione diffusa (così come definita in questo articolo) è pura, velleitaria ingenuità. Allo stesso modo è ingenuo pensare che vi possono essere soluzioni “monofattoriali”: una sola legge, un solo provvedimento, per quanto radicale e caratterizzato da tolleranza zero, non sarà in grado di frenare un fenomeno così rilevante, e così potentemente alimentato da spirito di sopravvivenza (psicologica), senza contare il fatto che uno strato sempre più ampio degli adulti che si ergono a giudici di certi comportamenti giovanili non è legittimato a esprimere simili giudizi per il semplice fatto che, al di là del maggiore controllo legale sulle molecole usate, anche questo strato di società adulta persegue gli stessi fini che condanna nei propri figli, ovvero la rimozione rapida del dolore psichico. Dunque differenze di mezzi ma equivalenza dei fini, come abbiamo fatto notare poc’anzi. Ogni intervento verso i giovani che punti semplicemente ai mezzi (ma non ai fini) è fin da subito un intervento destinato, nella migliore delle ipotesi, a contenere il fenomeno nel breve termine e niente più. Non ho nulla contro le soluzioni temporanee/tampone anzi ne sostengo l’importanza e l’urgenza! Credo però sia fondamentale essere molto lucidi e umili nel riconoscere i limiti delle soluzioni che alcuni propongono come salvifiche.
    Se davvero una società vuole por mano a questo rilevante grumo di rischi e di condotte disturbate nei propri giovani non può che orientarsi su soluzioni plurime e multifattoriali che vadano a incidere su molteplici aspetti. Ad esempio, per quanto non risolutivi, servono sicuramente interventi di riduzione del danno in tutta la loro complessità: dall’informazione sui rischi sanitari al monitoraggio delle sostanze contenute nelle pastiglie o in altri confezionamenti (pill testing) fino ai presìdi medici nei luoghi di più probabile consumo e abuso di sostanze. La critica frequente che viene rivolta (dai severi censori delle condotte giovanili) verso le pratiche di riduzione del danno è che queste suonano come una sorta di legittimazione di condotte devianti; questa posizione è in realtà assolutamente inconsistente sotto numerosi punti di vista tra i quali voglio citare i due principali. Il primo è che, con questo criterio, l’esistenza degli ospedali, dei servizi di ambulanza, di salvataggio, ecc. potrebbero tutti quanti essere tacciati di “implicito incoraggiamento e legittimazione a comportamenti sbagliati”, il che non è sostenibile, a meno di voler creare una civiltà assolutamente persecutoria. Il secondo motivo è più potente, in certa misura sostanziale: la società adulta, così giudicante rispetto alle condotte di abuso portate avanti dai suoi figli, è la stessa che consuma tonnellate di psicofarmaci con lo stesso miraggio di abolire il dolore psichico. Sono invece convinto che l’inizio di ogni pratica efficace non possa che partire dal doloroso, a volte straziante riconoscimento che questi figli sono figli di tutti e di tutto, sono forgiati da una cultura che è anche la nostra, e condividono obiettivi, bisogni, difficoltà e rappresentazioni della realtà con pressoché tutti gli altri membri della società.
    Un altro aspetto cruciale, se si vuole fare una prevenzione a medio e lungo termine, è quello di fare ricerche per individuare meglio i fattori chiave di questa estrema vulnerabilità al dolore psichico, alla inadeguatezza e al bisogno di benessere e di successo, nonché al sentimento di insormontabilità della sconfitta, della perdita e del distacco, e progettare interventi riparatori. Intervenire su questi punti non produce probabilmente risultati eclatanti a brevissimo termine per i quali solo la riduzione del danno può dare sollievo immediato, tuttavia alcune esperienze suggeriscono che è possibile influire su comportamenti inadeguati fornendo a individui e/o piccoli gruppi di persone coinvolte strumenti alternativi (e puliti) di gestione del dolore psichico. Anche in questo caso va tenuto presente quanti ostacoli possono frapporsi a queste pratiche, primo tra tutti il senso di vergogna e di stigma sociale che pende su qualsivoglia forma di sofferenza psicologica, si trattasse anche solo di una semplice tristezza: si tratta di un fattore che spinge i ragazzi a cercare soluzioni fai-da-te assolutamente private e spesso devastanti, piuttosto che entrare in contatto con altri esseri umani significativi verso i quali si teme di provare vergogna e inadeguatezza. Per varcare questa soglia proporrei di utilizzare gli strumenti della psicologia positiva: studiare quella parte (non piccola!) di adolescenti e di adulti che non fanno ricorso a queste pratiche e che manifestano resilienza rispetto alle situazioni stressogene, e tentare di “estrarne” strumenti esportabili in modo semplice verso i loro coetanei che invece sono irretiti dalle pratiche inadeguate e pericolose, nonché foriere di ulteriore sofferenza psichica.
    Anche la scuola può dare il suo contributo in questa ricerca, ma il “come” darlo dovrebbe essere oggetto di una approfondita riflessione e non di progetti improvvisati e estemporanei. Io vedo soprattutto un rischio, quello di parlare soprattutto di sostanze lasciando in ombra il malessere che precede quasi sempre i comportamenti di abuso. Riempire i ragazzi di parole sulle sostanze oltre la soglia della doverosa informazione mirata alla riduzione del danno non è benefico, anzi talvolta finisce col creare curiosità e diventare, questo sì, un involontario “spot pubblicitario” a favore dell’uso di stupefacenti. Occorre invece ricordare bene la necessità di puntare l’attenzione su ciò che precede le sostanze, ovvero le persone e i loro vissuti. La ragazza di sedici anni morta a Palermo (pare per una sostanza nociva o troppo forte) postava su Facebook frasi come «Il buio è più denso ed io non riesco a trovarci un senso» e «Se ti fidi delle persone finisce che ti spari un colpo in testa, avrei realizzato il mio sogno se fosse stato fare una vita di merda», «Cerchi soluzioni ora è tardi, senti emozioni affluire in tristi sguardi, gli abissi degli sbagli, capirsi nei dettagli, sensazioni e brividi freddi in abbracci caldi», «Mi dispiace, tutto tace mentre cerco pace e non sono capace perché sai che più fa male più mi piace». A chi scrive cose del genere, dovremmo forse fare un bel discorso sui rischi di assumere sostanze, incluso il perdere la vita che lei ha appena definito “di merda”? O non dovremmo piuttosto cercare di incontrare quel dolore, e riuscire a trasformarlo in qualcosa di sopportabile, vivibile, che lascia crescere e non paralizza? Vale anche per i genitori: attenzione a focalizzarsi troppo sulle sostanze, restiamo piuttosto ben concentrati sulla persona, sugli stati d’animo, sul dolore. Chiediamo ai figli “come stai? Come ti va la vita?” piuttosto che “fumi canne? Usi Ecstasy?”
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