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  • Nido e Scuola Infanzia, troppo presto, troppo a lungo, troppo…

    SoffioniLa nostra società si è gradualmente abituata a considerare naturale che bambini di 6, 7, 8 mesi trascorrano 7, 8, fino a 10 ore fuori casa all’interno di una struttura “educativa”, dove la parola educativa merita necessariamente le virgolette in quanto risulta davvero incomprensibile cosa ci possa essere di educativo per un bambino di sette mesi al di fuori del contatto e dello scambio affettivo con i propri familiari. Naturalmente sembra a molti ancora più naturale che una vita del genere venga condotta dei bambini nella fascia 3-6 anni, cioè fino alla fine della scuola dell’infanzia. Della età giusta per il nido, ammesso che esista, abbiamo già parlato qui.

    A costo di apparire impopolare vorrei proporre alcune riflessioni a partire dai bisogni dei bambini, cosa della quale pochi sembrano davvero interessarsi operativamente.

    • Il bambino dalla nascita è predisposto a essere accudito da figure adulte stabili, verso le quali sviluppa attaccamento, un insieme complesso di motivazioni, emozioni e cognizioni, le cui principali manifestazioni sono la ricerca di vicinanza e la protesta per la separazione.
    • Da questo rapporto con adulti (figure di attaccamento) derivano risorse per un adeguato sviluppo affettivo, emotivo e cognitivo, che vanno dal linguaggio al senso di sé, dalla capacità di regolare le proprie emozioni e i propri impulsi all’orientamento spazio-temporale, fino alla capacità di aspettare, di conoscere e di esplorare. È dall’adulto che il bambino apprende (per contatto) i turni del parlare, la reciprocità, i confini io-tu… E infinite altre sfumature essenziali per un armonico sviluppo.
    • Il gioco con i pari età è, almeno fino ai tre anni, un gioco parallelo e affiancato, ma è solo negli anni successivi diviene cooperativo, reciproco, co-gestito, dunque autentica risorsa educativa.
    • È nel libero movimento corporeo che il bambino sviluppa il sè-corpo e le consapevolezze spaziali, quindi in un movimento protetto (ma non controllato o imposto) dall’adulto, al solo fine di evitare pericoli. La disciplina del corpo e del movimento inizia necessariamente dopo, quando possono essere utilizzate dal bambino risorse interne di autocontrollo.

    Se abbiamo ben presente tutto questo, allora diventa naturale fissare alcuni principi di base, quasi una dieta del buon vivere del bambino. E, come tutti sanno, una buona dieta deve essere varia. Tracciamone le caratteristiche ideali:

    • 0~12 mesi (o comunque fino all’inizio della capacità di camminare), a casa e all’aperto con mamma e papà; va bene il contributo non predominante di eventuali figure accessorie (parenti prossimi o baby sitter stabili). Sonno vicino a mamma. Allattamento seno esclusivo a richiesta (0~6) e auto-svezzamento (6~12) con proseguimento del seno e graduale interruzione (per chiarezza, la OMS afferma che non ci sono evidenze di effetti negativi del prendere il seno come complemento anche fino a tre anni di età).
    • 12~24 mesi, valgono le linee precedenti, ma con maggiore flessibilità, maggiore esplorazione di spazi aperti, possibile maggior apporto di figure accessorie preferibilmente stabili. (Diverse ricerche hanno dimostrato che maggiore è il numero e la variabilità di figure di riferimento nella primissima infanzia, maggiore il rischio di problemi comportamentali e emotivi in seguito). In questa fase il nido sarebbe da evitare; se proprio necessario, allora meglio assolutamente part time, cioè solo mattina e con un inserimento molto graduale e lento. Vacanze rigorosamente con i genitori.
    • 24~36 mesi, o comunque entro inizio scuola dell’infanzia: sostanzialmente restano valide le linee guida del periodo precedente, ma con maggiore apertura e tempi più tranquilli di permanenza con persone note che non siano i genitori, oppure il Nido, ma sempre comunque part time! Questa può essere la fase di consolidamento del rapporto con i nonni, se presenti. Meglio però, sotto i tre anni, evitare di far fare ai bambini vacanze lunghe (oltre 5/7 giorni) soli con i nonni. I bimbi più tranquilli e sereni possono, senza fretta, iniziare a dormire da soli.
    • Dai 3 ai 6 anni: ovviamente ha inizio per tutti la scuola dell’infanzia, ma altamente consigliabile la frequenza 8~13 approssimativamente, necessaria il primo anno. Se non è possibile sempre, va comunque limitata allo stretto necessario. Dormire da soli, la notte a casa, è un buon traguardo per questa età, ma alcuni bimbi sono ancora bisognosi di contatto; non facciamogli fretta.
    • Durante la fase 3~6 anni la “dieta” ideale comprende:
      • Mattino all’asilo
      • Pomeriggio a casa, sonnellino, e relazione con un adulto, esclusiva (1:1) o con fratelli/sorelle, massimo cuginetti, in modo che la relazione con l’adulto sia predominante rispetto a quella con i bimbi. In questo tempo è importante un buon equilibrio tra libertà motoria e esplorativa e limiti chiari e fermi dati al comportamento dei bambini.
      • Tardo pomeriggio (se non prima) ricongiungimento coi genitori fino a sera/notte.

    Per chiarezza: queste linee guida non sono state stese per colpevolizzare o accusare nessuno. Non siamo nati ieri e sappiamo tutti quanto sia difficile stare in mezzo tra le esigenze dei bambini e un mondo del lavoro sempre più rapace, intollerante, ladro di tempo e risorse emotive.

    Al contrario, queste linee guida sono state stese per aiutare chi può a crescere al meglio i propri figli, e per ricordare a tutti di non provare stupore quando al nido o all’asilo osserviamo bambini con significative mancanze nelle capacità di autoregolazione emotiva, nella turnazione del dialogo, nella relazione con l’adulto e con i pari età. Non sono i bambini a sbagliare ma semmai le circostanze in cui sono cresciuti. Dovrebbero essere un monito a riformare e riformulare la vita nella scuola dell’infanzia al fine di aiutare questi bambini squilibrati a ritrovare maggiori risorse auto regolative interne. Per farlo, non hanno bisogno di più disciplina ma di più intense relazioni costruttive con adulti significativi. Dunque per prima cosa, soltanto per cominciare e nulla più, smettiamola con sezioni da 25 bambini con una sola maestra.

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  • ADHD: ma è propriamente una “malattia”?

    Vorrei ragionare da “addetto ai lavori” e potermi sentire estraneo sia al furore “antipsichiatrico”, che al furore “anti-antipsichiatrico” o iper-medicalizzante.
    Ne faccio proprio una questione “scientifica”: qualunque manuale di psicofarmacologia chiarisce da subito che i mentre i meccanismi di azione di gran parte dei farmaci che usiamo per altre patologie sono per lo più esattamente noti, quelli degli psicofarmaci non sono noti, se non per via del constatarne gli effetti. Anche i “bugiardini” di notissimi farmaci riprendono lo stesso concetto,  riporto ad esempio quello di un celebre e diffusissimo ansiolitico (grassetti miei mirati a evidenziare la prudenza e le espressioni di incertezza):

    «L’esatto meccanismo d’azione delle benzodiazepine non è stato ancora chiarito; comunque, sembra che le benzodiazepine agiscano attraverso vari meccanismi. Presumibilmente le benzodiazepine esercitano i loro effetti attraverso un legame con specifici recettori a diversi siti entro il sistema nervoso centrale, o potenziando gli effetti di inibizione sinaptica o presinaptica, mediata dall’acido g-aminobutirrico, oppure influenzando direttamente i meccanismi che generano il potenziale d’azione.»

    Ho scelto questo testo per usarlo come esempio del fatto che in ambito psicofarmacologico si lavora in condizioni diverse da quelle che contraddistiguono altre branche della medicina, Dunque parlare di una molecola come “terapia” di una patologia è una sintesi troppo rapida e convenzionale che non rispecchia nemmeno il pensiero di chi queste cose le studia e ci fa ricerca, dunque i dubbi non sono frutto di qualche ossessione settaria ma di emeriti scienziati, e che uno dei maggiori ricercatori viventi, A. Damasio, scrive qualcosa che suona come “pensare di combattere la depressione con molecole come gli SSRI è come sparare alle formiche col cannone”.
    Altro problema: l’esistenza delle patologie. Alcuni citano il DSM-IV come “il demonio”, altri come il vangelo, ma non è né l’uno né l’altro. Però chiunque abbia studiato psicologia o psichiatria sa che l’approccio che è “passato” nelle varie versioni del DSM che si sono succedute, è partito da un tentativo (certamente prematuro e fallito) di approccio eziologico, ossia l’approccio normale per le malattie del corpo: definisco una patologia X in base al fatto che è causata dal virus Y o dal batterio Z, o dal meccanismo degenerativo del tessuto W. Dopo, e soltanto dopo passo a enumerarne i sintomi ad uso della diagnosi. Ovviamente nel caso della mente non è stato possibile formulare un approccio del genere praticamente per nessuna patologia, poiché le ipotesi eziologiche dei primi DSM, di matrice psicoanalitica, non hanno retto alla prova del tempo e delle verifiche. Il DSM attuale ha un approccio sindromico, ovvero parte dalla enumerazione dei sintomi raggruppandoli in delle sindromi, e le sindromi non sono “ancora” delle malattie. Del resto l’AIDS nasceva come sindrome, prima di identificarne il virus. Dunque il DSM-IV non è né demonio né vangelo, ma semplicemente quel che è: il tentativo di creare su basi statistiche e linguistiche una base diagnostica a partire dalla rinuncia all’approccio eziologico. Dunque non è che certuni sono pazzi perché dicono che “non esiste l’ADHD”, intanto perché essi dichiarano (almeno nelle formulazioni più rigorose) che non esiste una entità nosologica autonoma e univocamente definita come ADHD, ma non dicono altro che qualunque patologia definita con un approccio sindromico “non esiste” nel senso in cui invece esiste l’AIDS. Anche l’AIDS prima di identificarne il fattore eziologico “non esisteva” come entità nosologica: ciò non significava che “non esistessero” i malati o i sintomi, ma non si sapeva come classificarli, come curarli, né per quali cause. Che io sappia, nessuno ha ancora pubblicato dati credibili e condivisi sulle basi eziologiche che accomunerebbero i quadri sindromici dell’ADHD. Per la medicina “normale” questo è semplicemente il processo ovvio per ogni nuova patologia, mentre per la psicopatologia finora ci si è fermati ai quadri sindromici, e nessuno ancora osa affermare basi eziologiche certe per nessuna psicopatologia. Dunque è profondamente stupido sostenere che “invece” l’ADHD esiste perché è scritta nel DSM-IV. Tant’è vero che esiste anche un diverso sistema diagnostico, l’ICD-10, promosso dalla OMS, che cataloga diversamente molte patologie. Se si parlasse di patologie nel senso medico non potrebbero esistere due sistemi diagnostici!
    Infine: perché prendersela tanto per i bambini? Se si pensa che il sistema nervoso continua il suo sviluppo e la sua costruzione (ad esempio il processo di mielinizzazione) fino almeno ai 14 anni, e se si pensa che le molecole di molti psicofarmaci (in particolare gli antidepressivi) agiscono anche, o talvolta soprattutto sull’espressione genica all’interno dei neuroni, vorrei sapere cosa c’è di antiscientifico a proclamare la necessità di evitarne al massimo la somministrazione. Tanto per chiarirci, ho molte meno remore negli adulti. Sempre A. Damasio, comunque, ammonisce sul fatto che noi non sappiamo a quali conseguenze andiamo incontro con una assunzione di psico-molecole che sta divenendo di massa. Dunque, che lo sostengano ideologi settari o meno, io trovo che somministrare a bambini di sette, otto anni farmaci che a detta di chi ne sostiene l’uso, “non curano il disturbo, poiché migliorano solo temporaneamente i sintomi” a me pare un abuso bello e buono e non saprei come diversamente chiamarlo. Che fare allora con questi bambini? Perché sembra che poi alla fine mentre si sta qui a discutere ADHD sì o no, a scuola e a casa si sta in trincea. Questo è semplicemente un pezzo del mio normale lavoro. Dietro ogni bambino irrequieto c’è una storia e comprendendola è possibile gestirla al meglio e contenerla. Questo è il lavoro di tanti come me, un lavoro paziente e silenzioso.
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  • La nostra posizione sull’ADHD

    Come è noto, la nostra Associazione ha aderito alla campagna “Giù le mani dai bambini” assumendo quindi una chiara posizione rispetto al tema delle problematiche di irrequietezza e disattenzione nei bambini. Ci pare opportuno aggiungere queste righe per precisare meglio quanto ci sta a cuore su questo argomento. Intorno alla questione “ADHD” si stanno giocando accese lotte tra fautori e detrattori dell’uso di farmaci come il metilfenidato, che rischiano però di mettere in ombra una questione essenziale: mentre noi discutiamo dottamente, gli uni spergiurando che l’ADHD “esiste” e che il Ritalin fa bene, gli altri sbracciandosi a sostenere che l’ADHD “non esiste” e che il Ritalin fa male, esistono certamente bambini di nome Giovanni, Carlo, Lorenzo o Lucia, vivi, veri, che tra i banchi di scuola agiscono le loro difficoltà emotive e relazionali, la loro ansia, i loro bisogni, e rischiamo tutti di essere troppo distratti per curarci di loro personalmente, troppo occupati a sostenere tesi contrarie che, al loro estremo, si avvicinano molto alla masturbazione mentale, qualcosa come una discussione sul sesso degli angeli. Sembra quasi che il clamore di queste diatribe testimoni che in primo luogo si sia a caccia di affari (case farmaceutiche) o di visibilità (tutti quanti).
    Vorremmo sottolineare invece qui il lavoro silenzioso di tanti: psicologi (scolastici, di ASL, privati, ecc.), formatori, insegnanti, persone che senza alcuna caccia alla visibilità, né alcun bisogno di fare affari sulla pelle dei bambini, pazientemente ogni giorno lavorano a contatto con bimbi iperattivi e/o disattenti guardandoli in faccia, chiamandoli per nome, aiutandoli a trovare modi per autoregolarsi, e aiutando il loro ambiente a modificarsi per favorire il loro benessere.
    Ci sono invece realtà in cerca di visibilità, alcune con nostalgie rivoluzionarie, altre con appartenenze vicine alla cosiddetta Chiesa di Scientology, che agganciano a questa sacrosanta battaglia temi di antipsichiatria, di “lotta alla psichiatrizzazione”, con toni talvolta allarmistici, talaltra vittimistici che non ci appartengono nel modo più assoluto. Alcuni arrivano ad affermare che il disagio, il dolore mentale, l’angoscia, la perdita di contatto con la realtà siano solo il frutto della pratica psichiatrica, e che non esisterebbero senza di essa. In pratica, si nega completamente una larga fetta di esperienza umana, bollandola come complotto delle multinazionali del farmaco.
    Senza mezzi termini, consideriamo queste tesi delle fesserie pericolose, che fingendo di basarsi sulle tesi di psichiatri illuminati come Basaglia, finiscono invece col distruggerne lo spirito più profondo, che non nega il dolore e il disordine mentale, ma studia metodi umani, non violenti e integrativi per lenirlo, senza cercare facili e sommarie scorciatoie.
    Per concludere: anche il bambino iperattivo e/o disattento è portatore, a diversi livelli, di un disagio e un dolore mentale, in parte causa del suo disturbo, in parte effetto di una cattiva integrazione con l’ambiente e con i pari, e consideriamo nostro compito prenderci cura di lui. Lo slogan “non etichettare tuo figlio, ascoltalo” ci piace molto, a patto che non significhi “se tuo figlio soffre, fai finta di niente, è solo una invenzione delle multinazionali del farmaco”.

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  • Iperattività e Deficit di Attenzione

    “Non sta mai fermo”, “le maestre non riescono a tenerlo”, “perde tutto e non si concentra su niente”, “si arrampica dappertutto”, ecco alcune delle affermazioni che evocano in molti genitori una sigla sempre più pronunciata: ADHD, ovvero Disturbo da deficit di attenzione e iperattività. Una sigla che dovrebbe indicare una specifica patologia, anche se il mondo scientifico non ha trovato alcun criterio definitivo che permetta di affermare che l’ADHD è una malattia, e non piuttosto un insieme di sintomi non specifici. In questo articolo si prova quindi a produrre affermazioni sensate, utili e concrete a partire da una questione controversa che, oltre ai nobili scopi della tutela del bambino, mette in gioco la serenità e le scelte di tante famiglie, ma anche enormi interessi economici. Per cominciare, proviamo a entrare nei panni dei tanti genitori posti di fronte al loro bambino “troppo” vivace, disattento e irrequieto.

    La prima segnalazione

    Un bimbo straordinariamente vivace non passa inosservato, ma di solito la famiglia tende ad accettare questa caratteristica come un dato di personalità, a meno che non esploda all’improvviso in un soggetto che in precedenza era tranquillo. È piuttosto dalla scuola (materna o più spesso elementare) che di solito arrivano i primi messaggi sul bambino che “non si riesce a tenere”. Talvolta i genitori concordano con queste osservazioni ma non è raro che ne siano sorpresi, poiché il loro bambino a casa è tranquillo, o almeno appare tale; queste discrepanze tra scuola e abitazione sono del tutto normali, poiché questi comportamenti variano sensibilmente in base all’ambiente e allo stato d’animo in cui il bimbo si trova. Un esempio semplificato per far capire al lettore: l’irrequietezza e la disattenzione possono essere qualcosa di paragonabile alla febbre, ovvero un sintomo non specifico, del quale non possiamo dire “non esiste”, ma nemmeno possiamo considerarlo come una malattia a sé stante; di fronte a un bimbo febbricitante qualsiasi pediatra si metterebbe alla ricerca della causa sulla quale eventualmente intervenire, e l’oggetto della sua diagnosi sarebbe appunto la causa della febbre e non la febbre in sé.

    Il rischio di etichettare

    Vediamo ora meglio perché sia così importante distinguere il sintomo dalle sue cause. Alcune organizzazioni suggeriscono liste di comportamenti (di norma diciotto) che dovrebbero indurre il sospetto di ADHD; in altri Paesi e anche da parte di alcuni clinici italiani si dà per scontato che questi sintomi abbiano una causa biologica che risiede nel cervello del bambino; è noto però che esistono decine di diverse possibili condizioni psicologiche e ambientali che possono causare comportamenti del tutto simili ai sintomi della cosiddetta ADHD. Ecco perché etichettare come “malattia a origine biologica” quello che è un semplice insieme di sintomi ci impedisce di cercare tutte le possibili cause, e non solo quelle biologiche (oggi peraltro molto discusse), e ci impedisce quindi di cercare le soluzioni più adeguate; dunque la validità diagnostica di questi criteri è per lo meno controversa, ma ne riportiamo qualche esempio per capire come siano formulati:

    • il bambino incontra difficoltà a concentrare l’attenzione sui dettagli o compie errori di negligenza
      è riluttante ad affrontare impegni che richiedono uno sforzo mentale continuato (come i compiti di scuola)
    • si lascia distrarre facilmente da stimoli esterni
    • da seduto giocherella con le mani o con i piedi o non sta fermo o si dimena
    • corre e si arrampica dappertutto, sembra “motorizzato”.

    Come si vede si tratta di fenomeni semplici e molto comuni, se presi uno per uno, al punto che a uno sguardo superficiale potrebbero far credere affetti da ADHD gran parte dei bambini molto vivaci, ma i genitori si rassicurino: dei complessivi diciotto segnali dovrebbero esserne presenti almeno dodici in modo continuativo e persistente prima di stabilire anche solo il sospetto di ADHD. E anche qualora si raggiungesse questo limite, sono gli stessi promotori di questi test a precisare che “la diagnosi, soprattutto nei casi più complessi e dubbiosi, deve essere consolidata con una diagnostica più approfondita rappresentata dai test di concentrazione, di intelligenza e di personalità”. C’è anche da chiedersi che cosa esattamente sia da diagnosticare, dal momento che finora si parla di sintomi. Dunque la domanda “mio figlio ha l’ADHD?” è una domanda mal posta e fuorviante. Se si potesse riassumere il senso di queste righe in un solo concetto: gli stati di estrema irrequietezza e disattenzione sono un problema reale che va riconosciuto e risolto, ma lo scopo non si raggiunge appiccicandoci sopra una etichetta di “patologia”.

    Il rischio di sottovalutare

    Oltre al rischio di etichette patologiche c’è quello opposto di banalizzare e sottovalutare le difficoltà del bambino dicendo: “in fondo è soltanto vivace”, “è il suo carattere”, “ha tanta energia” e così via. Occorre invece prima di tutto osservare il bambino e domandarsi: la sua è (a) vivace, autentica gioia di muoversi, o (b) irrequietezza inarrestabile e incapace di rispettare tutti i limiti e le richieste dell’ambiente, anche le più blande? È sempre stato un bimbo (a) di grande attività motoria, o (b) è divenuto incontenibile in età successive e solo in specifici contesti, per lo più quello scolastico? Cosa esprime col suo comportamento, (a) una fondamentale gioia di vivere, o (b) una agitazione perpetua senza altro scopo se non quello di tenere lontana l’ansia o l’angoscia? Come utilizza (se li usa) i videogiochi? Diventa (a) capace di stare seduto anche intere ore alla console (Playstation e simili) senza stancarsi e senza perdere la concentrazione, o (b) non ci riesce? Una consultazione con un clinico è sempre una scelta opportuna, ma più le vostre risposte sono spostate verso il polo (b), più tale scelta è caldamente raccomandata.

    Quali sono i possibili rimedi? Servono i farmaci?

    Fin qui abbiamo raccolto le informazioni fondamentali per comprendere la specifica condizione di quel particolare bambino, che non vorremmo mai definire “sospetto di avere l’ADHD”. Occorre poi che la famiglia riporti tutto ciò al clinico. Alcuni medici prescrivono farmaci a base di metilfenidato, che era inserito fino a poco tempo fa nella tabella I degli stupefacenti insieme a cocaina, anfetamine, oppiacei, barbiturici e LSD, mentre ora è stato declassato nella tabella IV degli stupefacenti, per permetterne la somministrazione ai bambini. Questo sarebbe già di per sé un valido motivo per contrastarne l’uso, ma nulla più delle stesse parole dell’AIFA, una associazione non certo contraria all’uso del metilfenidato, può convincercene (grassetti nostri): “questi farmaci non curano il disturbo, poiché migliorano solo temporaneamente i sintomi (…). Da soli i farmaci non possono aiutare a far sentire i pazienti interiormente meglio (…) o a fornire quelle specifiche competenze necessarie per affrontare i problemi, ad insegnare delle abilità sociali o aumentare la motivazione. Per raggiungere questi risultati, e che durino nel tempo, sono necessari altri generi di trattamenti e forme di sostegno (…)”. Fondamentale, quindi, comprendere la globalità della situazione e consigliare la famiglia per il meglio, caso per caso; esaminare abitudini, stili di vita, ambiente scolastico, storia cognitiva, emotiva e relazionale, e apportarvi le necessarie modifiche; valutare eventuali richieste cognitive e comportamentali eccessive o troppo precoci che vanno rimodulate. Infine vengono predisposti interventi educativi e training per aiutare il bambino a gestire meglio gli impulsi e l’attenzione. Anche la scuola dovrebbe ricevere consigli per predisporre le condizioni ideali per bambini con questo genere di difficoltà.

    È possibile prevenire?

    Per un fenomeno così complesso e articolato non possiamo parlare di “prevenzione”, una prassi che riguarda patologie specifiche con origini note. Rispetto al nostro tema elenchiamo solo alcuni semplici consigli, che permettono di predisporre buone abitudini e condizioni di vita, valide anche per il fine più generale di una buona crescita:

    • Proporre e incentivare attività libere all’aria aperta (a tutte le età) meglio se in compagnia di coetanei.
    • Limitare molto la quantità di televisione specialmente nei primi anni di vita, e vigilare sulla qualità, in particolare evitando generi con veloci sequenze di immagini.
    • Evitare di riempire la vita dei bimbi con troppe attività extrascolastiche, specie se sedentarie.
    • Controllare l’abuso di videogiochi.

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