Di cosa parliamo quando parliamo di Educazione Sessuale

Di cosa parliamo quando parliamo di
Educazione Sessuale

Franco Nanni

Approfitto dell’occasione offerta dalle polemiche sulla cosiddetta “teoria Gender” (polemiche male impostate contro qualcosa che in realtà non esiste, come ho cercato di dimostrare in un altro articolo) per porre la domanda (assai più seria) che forma il titolo di queste righe. Tutti, favorevoli e contrari all’educazione sessuale nelle scuole, sembrano sapere con assoluta certezza di cosa si stia parlando, ma senza mai definirlo con sufficiente chiarezza. Sarà perché provengo da una formazione molto attenta agli aspetti relativistico-antropologici che vanno tenuti presente quando si affronta tutto ciò che è culturale, ma conservo la netta sensazione che in verità non si sappia proprio cosa sia l’educazione sessuale, e anche laddove se ne diano descrizioni, esse siano alternativamente vaghe e generiche, o viceversa centrate su un nucleo valoriale forte inevitabilmente destinato a dividere tra chi “crede” e chi non crede. Vediamo tre esempi:
1. L’educazione sessuale persegue il fine di fornire ai giovani conoscenze, competenze, atteggiamenti e valori di cui hanno bisogno per determinare la propria sessualità e goderne – fisicamente ed emotivamente, individualmente e nelle relazioni. Considera la “sessualità” in modo olistico e nel contesto dello sviluppo affettivo e sociale. Riconosce che la sola informazione non è sufficiente. È necessario offrire ai giovani l’opportunità di acquisire life skills essenziali e di sviluppare atteggiamenti e valori positivi. (International Planned Parenthood Federation (IPPF) 2006)
2. È definito Educazione Sessuale un approccio, adeguato all’età e alla cultura, nell’insegnamento riguardante il sesso e le relazioni attraverso la trasmissione di informazioni scientificamente corrette, realistiche e non giudicanti. L’educazione Sessuale offre, per molti aspetti della sessualità, l’opportunità sia di esplorare i propri valori e atteggiamenti, sia di sviluppare le competenze decisionali, le competenze comunicative e le competenze necessarie per la riduzione dei rischi.” (UNESCO 2009).
3. Obiettivo e meta dell’educazione sessuale è lo sviluppo di una sessualità ordinata e matura in senso psicologico, etico e spirituale. Questa visione personalistica dell’educazione sessuale riceve maggior luce e consistenza se inserita nella concezione cristiana dell’uomo e del suo destino. […] Se l’educazione sessuale è solo un aspetto dell’educazione integrale della persona, essa implica di necessità il riferimento a una concezione dell’uomo e cioè a una “antropologia”. (Chiesa Cattolica, 1980)
Le definizioni 1 e 2, per vari aspetti simili ma non sovrapponibili, sono un buon esempio di generica vaghezza, unita ad un approccio più fortemente informativo e scientista nella seconda. La terza è un esempio ovvio di centratura su un nucleo valoriale (e non solo) assai forte. Di essa va sottolineata la grande onestà del riconoscere la ineludibile inscrizione di qualsivoglia modello di Educazione Sessuale in una visione più ampia dell’essere umano e delle sue manifestazioni, che la pone un gradino di saggezza sopra ogni ingenua aspirazione alla “neutralità”. Tornerò su questo punto più oltre.
Assai spesso si sente invocare qualche forma di educazione sessuale sotto la spinta di eventi di cronaca, di comportamenti distruttivi, di fenomeni più o meno devianti; questa invocazione la connota più come un’ancora di salvezza contro il disorientamento e lo sgomento che come progetto organico e meditato. Ciò non significa che piani organici e ambiziosi non esistano: sulla base di linee guida stese dalla OMS si possono trovare in rete materiali molto dettagliati che aspirano a diventare uno standard per tutti i paesi occidentali, come ad esempio:
Ufficio Regionale per l’Europa dell’OMS e BzgA – Standard per l’Educazione Sessuale in Europa.
Vorrei allora provare a esaminare la questione da un punto di vista antropologico-culturale: credo di non essere lontano dal vero sostenendo che ogni comunità umana e ogni cultura che la permea e costituisce si misura con la consapevolezza (non necessariamente tematizzata a livello esplicito) di tre costanti delle quali voglio parlare senza preoccuparmi dell’una o dell’altra parola usata per definirli poiché quello che interessa qui è il fenomeno concreto sottostante e non la sua concettualizzazione. Vediamole:

  • c’è una potente forza attrattiva (comunque la vogliamo chiamare e definire) che porta gli individui (assai spesso, ma non necessariamente, di sesso diverso) a cercare reciprocamente il piacere sessuale.
  • la ricerca e la pratica del sesso tra due individui porta di norma alla formazione di una sorta di legame che in forme molto variabili tende a richiedere una certa esclusività e continuità. (Ci sono legami bidirezionali di tipo cronologico tra il raggiungimento del piacere in coppia e la presenza del legame. La forza attrattiva della ricerca del piacere sessuale mediato da un’altra persona può essere primaria e preesistente rispetto alla formazione del legame (oggi sappiamo che ciò avviene con la mediazione dell’ossitocina) ma le culture lavorano alacremente a modificare e regolamentare in diversi modi la successione cronologica di questi due aspetti.)
  • Appare chiara in ogni cultura la necessità di normare l’esercizio della sessualità la cui pratica indiscriminata e indifferenziata risulterebbe assai probabilmente distruttiva rispetto al legame più ampio che forma la collettività. Un altro motivo a favore della normazione dell’attività sessuale e dei legami affettivi adulti riguarda naturalmente la conseguenza probabile del coito ovvero la procreazione.

L’antropologia culturale ci riporta molte diverse maniere di rispondere alle questioni poste dagli elementi costanti appena elencati; ma l’aspetto davvero costante che attraversa tutte queste diversità è il fatto che nessuna cultura pare abbia ignorato o lasciato al caso o a una fantomatica “spontaneità” ciò che riguarda la sessualità e il legame uomo-donna (ed eventualmente altre forme). Oltre alle differenze di contenuto tra una e l’altra risposta, ve ne sono di forma e estensione: alcune culture sono propense a normare tanto, definendo in modi dettagliati tempi, luoghi e regole per il corteggiamento, per la relazione, ecc., altre a normare meno, lasciando tra una regola e l’altra spazi e interstizi di libertà o di arbitrio, talvolta riconosciuti, talaltra confinati nel segreto.
Guardata sotto questo punto di vista la cosiddetta educazione sessuale di cui tanto si parla nei Paesi occidentali altro non sarebbe che “una” risposta alle questioni poste dai tre elementi costanti suddetti. Nelle sue varie forme, essa sembra figlia della nostra società progressista, positivista un po’ scientista nonché democratica e razionalista che si è fatta avanti gradualmente nel corso del ventesimo secolo in occidente. Il frutto più tipico di questa cultura è la modalità ancora oggi praticata (a dispetto delle dichiarazioni di intenti come quello della IPPF) che sostiene un approccio essenzialmente (anche se non unicamente) informativo rispetto alle questioni della sessualità e aree limitrofe della relazione umana. Una versione più antica, (molto in voga negli anni ‘70) prevedeva quasi una mera informazione anatomo-oleodinamica (mi si consenta l’ironia) unita alla storica educazione demografica della pionieristica organizzazione italiana AIED, comunque tuttora operante sul nostro territorio. C’era in quell’approccio una aspirazione ingenua all’indipendenza da valori, ideologie o atteggiamenti preconcetti al fine di rendere libere le persone di vivere la sessualità come desideravano. L’ingenuità non era solo la presunta autonomia da valori e schemi interpretativi ma anche e forse soprattutto la presunzione che vi fosse un modo spontaneo e naturale (in qualche misura inscritto nella personalità dell’individuo) di vivere la sessualità, quasi potesse venir depurato da ogni altra influenza esterna.
Il problema della presunta Neutralità è complesso ma provo a sintetizzarlo in due gruppi di enunciati che sono assiomatici nei rispettivi ambiti, ossia le definizioni 1, 2 e 3:
1. Io ti informo con nozioni scientificamente corrette e “non di parte”; poi tu sceglierai come muoverti nel campo della sessualità, e compirai tali scelte usando come criteri…. cosa? Questo non viene definito, ma fa riferimento a un qualcosa di “altro” in cui compare la parola “valori”: in (1) essi vanno “sviluppati”, lasciando intendere che l’individuo vi giochi un ruolo come costruttore-ricercatore; in (2) i valori vanno “esplorati”, lasciando intendere che essi entrino a far parte del sapere della persona per altre vie che non siano l’Educazione Sessuale stessa. Si sottintende però comunque che i valori sono entità relativistiche, mentre la Educazione Sessuale non è relativa ma in qualche modo neutra e assoluta, o quantomeno di un livello logico superiore. Per quanto non venga esplicitato, in filigrana sembra di poter leggere l’idea che (a) ogni persona porti in sé un embrione molto soggettivo di “buona sessualità” che è suo diritto (e dovere, in un certo senso) cercare e/o sviluppare, e (b) che nel campo socio-culturale esistano o siano reperibili valori “pronti all’uso” (chiamiamoli metaforicamente “proteine”) o eventualmente gli amminoacidi necessari alla loro sintesi.
2. Io ti trasmetto una visione dell’uomo e all’interno di essa una visione della sessualità e ti trasmetto quindi consapevolmente ed esplicitamente valori e norme etiche. Ti preciso anche che non esiste una educazione sessuale neutra, ma solo una educazione fortemente collocata dentro una antropologia e un orizzonte valoriale. Sottintendo però che i valori non sono entità relativistiche ma degli assoluti: le norme che regolano i costumi e i comportamenti sessuali sono naturali e primarie, espressione della struttura dell’uomo. (quest’ultima frase in corsivo è tratta dal documento della Chiesa Cattolica del 1980). Simmetricamente, qui appare in filigrana l’idea che il campo socio-culturale sia, in ambito valoriale, un deserto o una palude tossica, e che solo il magistero della Chiesa possa salvare da ciò.

Dovrebbe saltare all’occhio una contraddizione che accomuna 1 e 2 sia pur su concetti e con forme differenti: entrambe si servono della coppia concettuale “relativistico vs assoluto” tentando di stare da una parte sola, ma finendo per ricadere dall’altra, cosicché il concetto che si vuol cacciare dalla porta rientra dalla finestra. Non è mia intenzione portare avanti un confronto tra visioni così incompatibili (nei contenuti) ma simili (nella forma concettuale e nelle contraddizioni interne), quanto piuttosto andare alla ricerca di una risposta al titolo dell’articolo, percorso rispetto al quale finora la disamina delle varie definizioni ci ha aiutato, ma che è giunto il momento di superare. A ben vedere, infatti, le definizioni fin qui analizzate finiscono con l’essere complementari rispetto alla visione antropologica. Secondo quest’ultima ci sono due questioni, una “globale” (il problema dell’impulso sessuale e tutto quello che ne consegue) e l’altra “locale” (quale risposta specifica ha elaborato questa specifica cultura per amministrare il problema stesso). Le definizioni IPPF e UNESCO descrivono questa mappa ma si guardano bene dal prendere parte alla soluzione (necessariamente locale), la Chiesa invece prende posizione localmente e fornisce una chiara risposta, non facendosi carico ovviamente di tutta la complessità che resta fuori dal campo locale. Potrà essere criticabile o da aggiornare, ma è senza dubbio strutturalmente una risposta nei termini previsti proprio da quella antropologia culturale relativistica che la Chiesa condanna. Ed è anche, volendo, una risposta alla nostra domanda. Soddisfacente o no che sia (per me non lo è assolutamente) essa è comunque una risposta.

E noi, come e dove la cerchiamo, una risposta soddisfacente? Se stiamo cercando una risposta globale, dovremmo tornare alla realtà e renderci conto che una risposta globale non v’è e non può esserci (non, almeno, fin quando l’intero mondo non sarà conquistato dal Califfato Islamico e assoggettato con le armi alla sua morale!). Si potrebbe inoltre obiettare che perfino le risposte locali più affermate non sono una rappresentazione dell’esistente (ci mancherebbe!) ma indicano un orizzonte etico che, sia pur con un certo grado di pudore e segretezza, ammette scostamenti dal “mainstream”. Tuttavia credo non si ricavi nulla ricadendo nella datatissima contrapposizione tra “verità” e “ipocrisia borghese” così forte nella cultura post sessantottina. Credo che la nostra ricerca debba procedere per gradi senza cadere in ulteriori dicotomie.
Prima di tutto occorre riprendere una concettualizzazione peraltro ben nota, ma il cui significato temo venga sottovalutato, tra Educazione Sessuale formale (o intenzionale) e informale. Finora abbiamo parlato della prima, ovvero di interventi pensati e strutturati. Nessuno osa negare che vi siano altre fonti: prima di tutto gli esempi reali che il bambino e poi l’adolescente sperimenta e vede intorno a sé, poi le narrazioni cinematografiche (in senso lato, anche televisive, telematiche (web)… ecc.), dalle quali si impara come si seduce, come ci si innamora, come ci si prende e come ci si lascia, come si piace, come si desidera… ecc. Quando l’educazione sessuale formale arriva, entra in un ambito dove i media hanno già stratificato molte rappresentazioni, particolarmente resistenti e solide proprio perché acquisite in modo lento, ripetitivo, semi-conscio e non pensato. Incidere su simili costellazioni di rappresentazioni è a mio parere una impresa assai ardua, mentre, al contrario, esse sono state in grado di erodere apparati morali granitici generando evoluzioni del costume impensabili prima dell’avvento dei mass media.
L’Educazione Sessuale informale è implicita, non intenzionale e inscritta nei comportamenti praticati nella collettività; è presente in tutte le culture, ma sembra che sia assai pervasiva e articolata nella nostra cultura così intrisa di comunicazioni di massa che ad ogni istante propongono immagini di corpi, di relazioni, di storie di amore, seduzione e sesso. Inoltre se in culture locali più ridotte e più semplici chi vi appartiene riscontra comportamenti sostanzialmente coerenti gli uni con gli altri, nel nostro contesto occidentale industrializzato e massmediale chiunque volesse trarre qualche costanza e qualche coerenza dall’insieme polifonico e vasto di condotte differenti troverebbe un’impresa davvero ardua se non impossibile. Siamo davvero una società nella quale convivono una accanto all’altra morali sessuali, condotte e rappresentazioni della relazione stridentemente diverse tra di loro. Le definizioni UNESCO e IPPF sembrano puntare sul fatto che fornendo informazioni di fondo corrette i nuovi adolescenti siano in grado di farsi largo in questa polifonia rintracciando valori a loro consoni. Temo proprio si tratti di una pia illusione.
Il primo vero passo da compiere credo sia ammettere che non si dà alcuna educazione sessuale in qualunque accezione senza fare riferimento a una visione dell’uomo. Fortunatamente disponiamo oggi, all’inizio del terzo millennio, di notevoli conoscenze scientifiche e antropologiche che possono aiutarci a non cadere nei due classici estremi: da una parte la visione apocalittica che suppone che l’essere umano, se non viene incasellato dentro una norma esterna dichiarata e cogente, finisce nell’anomia, nell’anarchia, nel disordine, nell’entropia, e in definitiva nella mera feroce distruttività. Ne è un triste esempio l’apologo distopico “Il signore delle mosche” di Goldring.
Dall’altro lato una visione pacificata e New Age che vede l’essere umano come portatore di una sorta di verità assoluta interna, quasi un talento, che deve essere scoperta e estrinsecata e che è in grado di ricreare armonia, scelte e azioni corrette e quant’altro. Credo che appaia abbastanza ovvio che alla prima visione si attaglia meglio una impostazione come quella della Chiesa cattolica e alla seconda meglio quelle di UNESCO e IPPF. Se c’è una cosa che lo studio integrato dell’uomo operato da neuroscienze, etologia umana, psicologia e altre discipline limitrofe ci ha detto, è che entrambe le previsioni poc’anzi citate sono clamorosamente false. Semplificando molto potremmo dire che le discipline che studiano l’essere umano ce lo descrivono in una condizione intermedia tra i due estremi ovvero dotato impulsi, tutt’altro che tabula rasa, ma anche animato dal bisogno e dalla capacità di interpretare e categorizzare la realtà, di individuare percorsi dotati di senso e in qualche modo normativi; esposto tuttavia al rischio di una carenza di rappresentazioni e norme che riescano a dare un costrutto a una realtà caotica. Un simile stato di cose ci spiega come sia possibile nella società liquida di oggi che un numero ingente e importante di persone riesca comunque a gestire in modo sufficientemente ordinato la propria sessualità in mancanza di un orizzonte etico vincolante e forte. A fianco di ciò non ci stupisce la presenza di crescenti manifestazioni di disregolazione emotiva e degli impulsi come una delle cifre più pregnanti del nostro tempo. Se è ammissibile tentare una sintesi molto ampia credo si possa dire che le nostre società sono contraddistinte simultaneamente da un allergia diffusa verso regole nette e divieti, e da una ricerca costante di una nuova legge che venga a salvarci dalla confusione e dall’anomia, come Massimo Recalcati ci descrive nel suo Complesso di Telemaco:

“Ciascuno rivendica il proprio diritto alla felicità come diritto di godere senza intrusioni di sorta da parte dell’Altro. […] Edipo non sa essere figlio. Egli vorrebbe negare ogni forma di dipendenza e di debito simbolico nei confronti dell’Altro. […] L’attesa di Telemaco non è attesa di una Legge anonima, non è attesa dell’applicazione routinaria della Legge del Codice. Egli attende il ritorno di un padre. […] le giovani generazioni di oggi assomigliano più a Telemaco che a Edipo. Esse domandano che qualcosa faccia da padre, che qualcosa torni dal mare, domandano una Legge che possa riportare un nuovo ordine e un nuovo orizzonte del mondo.” Domandano un Padre come “colui che offre in eredità il senso della Legge non come castigo ma come possibilità della libertà, come fondamento del desiderio.”

Cosa si può fare allora in questo ambito per costruire un’idea sensata di educazione sessuale? Io credo si debba partire dalla raccolta dei problemi con i quali si confrontano i nuovi adolescenti ovvero quelle questioni aggiuntive che definiscono in modo più specifico il problema globale descritto dai nostri tre elementi costanti. Raccoglierli tutti, classificarli ed unirli in questioni di fondo sarebbe probabilmente un lavoro immane da condurre da parte di equipe formate da clinici, sociologi, educatori e altre figure a contatto con questa fascia di età.
Provo a stilare un elenco inevitabilmente parziale e approssimativo che spero possa costituire un invito ad altri a proseguire e ampliare l’opera. Ecco dunque, in base alla mia esperienza di clinico, i problemi che i nuovi adolescenti affrontano (per lo più senza risolverli, ammesso che una soluzione vi sia).

  • Il legame affettivo è spesso temuto come una malattia che sarebbe meglio non contrarre; una volta che esso sia presente, è sbilanciato verso il polo dell’ansia di separazione, dell’angoscia della perdita, che si unisce a fantasie altrettanto estreme di autosufficienza. In mezzo, direi stritolato, sta il desiderio, il grande assente.
    Il corpo non è luogo di sensazioni e di piacere, ma è soggetto a un feroce voyeurismo finalizzato a un giudizio severo. O il corpo è avvertito come bello, e da ostentare, o non è. Se si prende la prima opzione l’esibizione delle forme è spesso ipertrofica e imbarazzante.
  • Lo statuto dell’attività sessuale è piuttosto indefinito e plurimo: bene di consumo, godimento quasi solipsistico con il corpo dell’altro ma non con l’altro, forma materialistica e meno impegnativa di intimità senza legame.
  • Si riscontra assai di frequente il vissuto (e/o la paura) di non essere amati; questo accompagna la ricerca affannosa di amore e riconoscimento talvolta nella delirante aspirazione a ottenere tutto ciò al di fuori di un legame affettivo strutturato. D’altronde è davvero arduo sviluppare rapporti sociali reciprocamente impegnativi nel contesto socioculturale attuale (si veda ad esempio L. Gallino, Finanzcapitalismo, 2010)
  • Difficoltà rilevanti nella gestione della possessività che talvolta è indiscriminata e aggressiva, talaltra rifiutata come una malattia.
  • Viene assai spesso scambiato per verità rivelata l’assioma un po’ “New Age” che, partendo dal classico “va dove ti porta il cuore”, sottintende che nel cuore vi sia sempre una posizione chiara e preminente, priva di ambivalenze, e che essa vada scoperta, ascoltata e agita senza mediazioni. Un simile assioma porta a situazioni di blocco e di sofferenza ogniqualvolta l’ambivalenza e l’incertezza si presentano sulla scena.
  • È diffusissima la difficoltà a rapportarsi con i propri impulsi e le proprie emozioni, sospesi tra azione impulsiva e non pensata (acting out) e evitamento emozionale, in particolare delle emozioni sperimentate come negative. Da sottolineare il fatto che l’acting out più che tradurre in atto l’emozione persegue il fine (di fatto irraggiungibile) di eliminarla quando questa è avvertita come negativa. Il dolore psichico infatti è rappresentato come un veleno da eliminare, e come segnale di “problema da risolvere”. Lo stesso destino tocca alla tristezza, agli stati contemplativi e a qualunque altra condizione che non sia una sorta di stolida e maniacale euforia che rende comunicativi, socievoli, brillanti, spiritosi e attraenti.

Questa sorta di elenco di problematiche diffuse dovrebbe far riflettere. Assai poche delle sue voci potrebbero giovarsi significativamente di approcci informativi: ci troviamo di fronte a difficoltà che sono in larghissima parte riconducibili a due ampie costellazioni di cause:
la cultura diffusa, le rappresentazioni egemoniche e predominanti del sé, dell’essere umano, della vita nelle nostre società a capitalismo finanziario maturo
le vicissitudini complessive riguardanti le dinamiche di attaccamento e i modelli interni (IWM) da esse derivanti.
Sarebbe assai vasto e lungo esaminare in dettaglio queste due costellazioni di cause che portano gli adolescenti a vivere determinate difficoltà nella vita amorosa e sessuale. In questa sede appare cruciale osservare che si tratta, come anticipato poc’anzi, di cause sulle quali incide davvero poco l’approccio informativo; ci vogliono esperienze concrete, e tante, collocate anche nella primissima infanzia, ma non solo in quel periodo, e ci vogliono capacità di riflessione non banali e non scolastiche per guardare con sufficiente disincanto le rappresentazioni della nostra cultura in quanto rappresentazioni e non in quanto “realtà” o “evidenze”. E forse, fantasticando, occorrerebbe una riflessione su quali e quanti mezzi di comunicazione raggiungono la massa dei giovanissimi, plasmando le visioni diffuse di sessualità e amore e non solo, che vanno a costituire, insomma, una sorta di “antropologia” implicita, incorporata, “embedded” nella mole enorme di messaggi e narrazioni cui ciascuno di noi è esposto; si tratta quindi di una antropologia “nascosta” poiché si presenta sotto mentite spoglie.
“E quindi?” potrebbe chiedersi chi ha eroicamente letto fin qui. Mi rendo conto che lo scenario appare scoraggiante: se il nostro fine è condurre il maggior numero di adolescenti verso una sessualità/affettività non scisse, integre, autentiche e portatrici di ricchezza interiore e relazionale (che non significa “assenza di dolore”!), dovremmo in realtà occuparci poco di educazione sessuale di massa nelle scuole, e assai di più di come è organizzata la nostra civiltà incapace di cura, e che genere di esperienze di abbandono e disamore infligge ai piccoli sotto falsi abiti di “esigenze lavorative”, e con quanti e quali narrazioni “tossiche” su cosa siano il sesso e l’amore riempiamo le loro povere menti. Dovremmo, insomma, occuparci molto di Educazione Sessuale Informale. Se invece ci preme di più sentirci anime belle che hanno prodigato sforzi educativi per le nuove generazioni, allora possiamo anche continuare a fare le stesse cose di sempre, qualche bel discorso di qualche esperto nelle classi e l’anima l’abbiamo salvata. Oppure, se uno proprio nelle classi ci vuole entrare ma cercando di far meglio? Alla luce di tutto quanto son venuto rimuginando fin qui, direi che per provare a realizzare un contributo a una educazione sessuale formale all’altezza della sfida, occorrono molti elementi che provo a elencare.

  • Le informazioni (psicologiche, fisiche, mediche, ecc) si portano con sé ma vanno usate solo al bisogno e con moderazione.
  • Il gruppo dei destinatari degli interventi dovrebbe essere piccolo (5/10 ragazzi) e con un discreto grado di confidenza e fiducia interna.
  • Iniziare con un (quasi)-focus-group, facendo emergere vissuti, questioni, nodi irrisolti, nonché i tentativi (anche fallimentari) di venirne a capo.
  • Entrare in sintonia con quanto emerge, vibrare insieme, insomma, dare l’esempio sul fatto che la sintonia emotiva esiste, che può essere praticata, che non è un sogno. Che è possibile essere compresi. In questa fase vanno usate grandi dosi di empatia: l’empatia non è tutto e non è la medicina per ogni male, ma è l’eccipiente necessario e imprescindibile per ogni altro mezzo.
  • Quando emergono vicende venate di dolore, occorre con grande tatto restare su quel dolore per mostrare che, se non se ne ha paura, il dolore può essere tollerato e vissuto, che si può stare a contatto con esso quanto basta a viverne la parte che ci tocca in sorte. Che il dolore, per dirla con gli psicoanalisti, non va evacuato ma vissuto e metabolizzato.
  • Quando nei problemi sono implicate rappresentazioni di origine culturale, si deve operare al fine di separare le rappresentazioni dall’esperienza interna, valorizzando soprattutto la seconda come sorgente primaria. Far emergere lo stato emotivo sottostante, e le spinte all’azione che suscita. Isolarne le componenti “narrative”. Un esempio banale: «dici di essere innamorata. D’accordo, ma come te ne accorgi? Cosa accade dentro di te che ti fa dire “sono innamorata”?» Lì si ascoltano risposte più interessanti, del tipo «Lo penso spesso», «Sento il bisogno di stargli vicino», «Quando è lontano non mi sento bene», ecc. Spesso (per fortuna non sempre!) cose del genere vengono elencate come sintomi di una brutta malattia, e allora occorre lavorare duro per trasmettere l’idea che è “soltanto” quell’insieme di reazioni molto umane che ci siamo abituati a chiamare amore. Oppure ancora: «Credevo fosse amore, invece era solo sesso». Anziché seguire la persona e gli altri interlocutori come se avesse descritto obiettivamente una situazione, occorre invece incalzare con domande intriganti che facciano emergere le narrazioni: «Ah, e come ti sei accorto della differenza?» «E come sarebbero andate le cose se fosse stato amore?» e tante, tante altre domande per aiutare le persone a focalizzarsi maggiormente sulla esperienza primaria, e a considerare parole, rappresentazioni e narrazioni come strumenti magari utili ma distinti dall’esperienza.
  • Chi entra in classe dovrebbe fornire in diretta un esempio di “sicurezza” inteso anche come sicurezza dell’attaccamento, ovvero sentirsi a proprio agio nel trattare le più diverse e talvolta toccanti emozioni, gli argomenti più scabrosi, sentirsi a proprio agio in ogni genere di descrizione di legami e di paura dei legami, non intimorito dalla dipendenza affettiva, cose che sa fare naturalmente una persona che i teorici dell’attaccamento chiamerebbero “Secure/Autonomous”.

Tutto questo elenco dovrebbe avere come risultato la salvezza del desiderio, ovvero, parafrasando Recalcati, trasformare e salvare da sé stesso un adolescente “senza desiderio, plastificato, apatico, perso nel mondo fagico degli oggetti, insofferente a ogni frustrazione”. “Come avviene la trasmissione del desiderio da una generazione all’altra? Attraverso una testimonianza incarnata di come si può vivere la vita con desiderio.”
Occorre dunque tantissima modestia e umiltà, tanta presenza, lo sforzo di esserci, per farsi strada in mezzo a solide e spesse stratificazioni di rappresentazioni create dall’educazione sessuale/affettiva implicita che plasma gli individui assai prima e profondamente di quanto non possano fare le cosiddette informazioni. Dopotutto l’individuo è formato nella sua interezza da una immane pluralità di istanze, dall’espressione genica alle esperienze lungo l’arco di vita, le relazioni, i dolori e le gioie… l’educazione sessuale formale è una goccia in questo mare, ma se dobbiamo farla, almeno facciamola dopo una riflessione all’altezza del compito. E spero che, dopotutto, si possa reperire in queste righe un barlume di risposta a chi ci chiede di cosa parliamo quando parliamo di Educazione sessuale.

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