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  • Inquietanti scenari post-obbligo vaccinale

    La nostra associazione non si occupa di vaccini ma di bambini. Tuttavia il recente decreto sull’obbligo vaccinale ci riguarda e ci preoccupa. Infatti occorre pensare a cosa succede quando una coppia di genitori che non ha vaccinato il proprio bambino si vede revocata la patria potestà: forse il bambino dovrebbe essere affidato a una casa famiglia o a una situazione analoga contestualmente all’allontanamento dal nucleo familiare originale? E verrebbe poi accompagnato coattivamente al più vicino ambulatorio e sottoposto a una tamburata di vaccinazioni per recuperare il tempo perduto?  Oppure più verosimilmente il bambino resterà nel domicilio dei genitori ma periodicamente una qualche forza pubblica si presenterà alla porta magari all’alba prelevando coattivamente il bambino e portarlo a un ambulatorio dove gli verranno praticate le vaccinazioni obbligatorie. Se questa non è evidente violazione dei più elementari diritti del bambino e della persona umana che cosa è? L’articolo 32 della nostra costituzione recita: «Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana.» Questo decreto ci preoccupa molto per gli scenari inquietanti, lividi e oscuri che implica,  e ci pare anche di assai dubbia costituzionalità!

    Franco Nanni

  • Lettera aperta ai pediatri

    Da dodici anni la nostra Associazione fornisce supporto alla genitorialità rispetto alle difficoltà psicologiche dei bambini e dei genitori stessi.

    Scrivo questa lettera inserendovi tutti i link ad articoli di approfondimento che via via sono stati pubblicati.

    Nel tempo si sono susseguite diverse novità, la maggiore delle quali al momento è la nostra sala di psicomotricità MUOVOMONDO, che da cinque anni si riempie di bambini in età dai 2 ai 6/7 anni, sia per percorsi educativi che per aiuto individuale e di gruppo.

    Un’altra rilevante innovazione è l’implementazione della ACT (Acceptance and Commitment Therapy) e della Mindfulness nel quadro del nostro lavoro con l’età evolutiva e la genitorialità. Approccio di elezione per i disturbi dell’area ansioso-depressiva anche lieve, fornisce ottimi risultati anche sulla relazione genitori-figli e la responsività. Leggi un approfondimento.

    Vediamo in breve quali caratteristiche abbiano avuto i nostri interventi, e quali evoluzioni.

    Irrequietezza, disturbi di attenzione e comportamenti oppositivi e/o disorganizzati hanno sempre avuto largo spazio e lo mantengono. Si può leggere qui un approfondimento generale, e qui un altro spedifico su ADHD.

    I disturbi d’ansia e di natura depressiva sono stabili, o forse in leggera crescita. Al loro interno stanno lievitando le ansie di prestazione principalmente in area scolastica, ma talvolta allargate allo sport e perfino ai videogiochi. Approfondimento.

    La diffusione capillare e l’abuso quantitativo e qualitativo di videogiochi spesso con contenuti affini alla psicopatia, nonché dei vari dispositivi elettronici rappresenta una emergenza sommersa di cui si parla sempre troppo poco. Approfondimento.

    Sullo sfondo resta il fattore eziologico preminente, la trasformazione drammatica della relazione di attaccamento. Si può leggere qui un importante approfondimento.

    Un altro fattore di rilievo è l’affanno crescente con cui la scuola, sempre più povera di risorse vive, affronta le criticità degli alunni, talvolta contribuendo attivamente a crearle o amplificarle. Approfondimento lungo, oppure qui una sintesi.

    Sempre sul versante scolastico assistiamo alla proliferazione di diagnosi DSA, col rischio di non tenere conto di altri importanti fattori critici nell’apprendimento.  Ci occupiamo anche di questo, cercando di mantenere al centro la persona e non il disturbo o il deficit. Approfondimento.

    I nostri contatti e sedi sono in questa pagina.

    Un caloroso augurio di buon lavoro a tutti i pediatri.

    Franco Nanni

     

     

  • Il nostro Mediaevo

    Noi abbiamo passato diversi milioni di anni ad affinare la relazione precoce madre-bambino… e appena 15 anni a distruggerla. A partire dalla 2° guerra mondiale, con un’accelerazione verso il 1960, abbiamo cominciato la più grande sperimentazione sociale intrapresa nel mondo occidentale: le madri di bambini in età prescolare e di bebè hanno cominciato a lavorare fuori casa. Ciò non ha modificato solamente la nostra cultura (credi religiosi, struttura familiare, tradizioni, abitudini alimentari, numero di figli in una famiglia, redditi familiari), ma ha trasformato anche la relazione madre-figlio e ha portato ad un modo tutto nuovo di allevare i figli. Per un bambino, il modo di imparare a diventare uomo è stato completamente rivoluzionato. Oggi siamo probabilmente l’unica specie tra i mammiferi nella quale la madre e il suo piccolo non restano insieme, inseparabili, almeno due o tre anni dopo la nascita. Chiedete ai gorilla o alle balene, scuoterebbero la testa dalla meraviglia.

    Niels Peter Rygaard

    Sia detto senza astio né senso di rivalsa… né tanto meno con malcelato maschilismo: semplicemente facciamo parlare i fatti.  Questa Grande Sperimentazione ha dato, col tempo, risultati devastanti. Dobbiamo ammettere che la costruzione di una mente, forse anche di un cervello dotato di equilibrio, empatia, capacità di autocontrollo e di attenzione richiede processi sottili che sfuggono alle osservazioni troppo superficiali e riduzioniste. C’è voluto tempo per vedere i frutti maturi di questa rivoluzione: i bambini di oggi sono figli della prima o addirittura della seconda generazione che ha partecipato a quel grande esperimento sociale di cui parla Rygaard, e con le loro carenti esperienze precoci si affacciano, per di più, su un mondo contraddistinto da vari fattori di rischio, che sintetizzo sommariamente:

    • Troppi e troppo potenti mezzi tecnologici per le relazioni e il tempo libero: web, social network, smartphone, videogame…
    • Sistemi educativi non pensati per i figli della Grande Sperimentazione, dunque inadeguati ai loro particolari bisogni
    • competitività diffusa
    • scomparsa di orizzonti futuri costruttivi
    • paura diffusa dell’altro e della perdita.

    Affrontano questi rischi con la peggior dotazione che si possa immaginare: la Grande Sperimentazione ha lasciato loro forme di attaccamento variamente disturbate, deprivazione da relazioni intime rispecchianti e rinforzanti, una vita troppo precocemente distaccata dall’ambiente caldo e rassicurante della diade madre-bambino. Fuori casa trovano un mondo che non dà loro chiari limiti e orizzonti di azione ma richieste, o addirittura ordini. I bambini attuali sono sottoposti a una ridda continua e pervasiva di richieste alle quali si vorrebbe obbedissero senza residui né proteste, e quando ciò non accade essi vengono rimproverati o puniti. Vivono in un mondo che fondamentalmente li respinge.

    I risultati li vediamo ogni giorno nelle scuole, nelle case, e, purtroppo, talvolta sui giornali. Tra coloro che percepiscono il disastro, ognuno depreca quel che ha di fronte: le incapacità dei genitori, o della scuola, o l’abuso di social media o di videogame, lo scarso rispetto dello studio tradizionale, o magari i problemi con l’ortografia, la grammatica, la storia, il galateo, l’empatia, e tanto altro. E ognuno sostiene con buone ragioni che, se solo si potesse por mano a questo o quel singolo aspetto, il resto si sistemerebbe da sé.

    Amiamo illuderci, evidentemente. Sistemando questo o quello non andrà a posto un bel niente, o al massimo ci andrà per pochi privilegiati. I buchi e gli ammanchi nella costruzione degli individui sono ormai troppi, e troppi i finti supporti patologici e patogeni: videogame, social media, violenza, ritiro, odio e paura. Troppo deboli, finanche deformi gli anticorpi prodotti da cultura, scuola, e perfino dalla buona volontà. Forse ce ne accorgiamo solo ora, ma non da ieri la nostra civiltà in declino ha oltrepassato il punto di non ritorno. Masse di individui malformati dentro, impauriti, carichi di odio e di desideri di rivalsa, afflitti da un vasto senso di perdita e di depauperamento hanno ormai invaso ogni spazio. Desiderosi, semplicemente, di agire la propria distruttività verso vittime qualunque, spesso più deboli. Non faticano a trovare nella società nicchie ideologiche che diano corpo e una sorta di legittimità ai loro bellicosi moti interiori. Qualcuno dice che costoro vanno comunque ascoltati e il principio è condivisibile, non fosse che i nati nella fase matura della più grande sperimentazione sociale del mondo occidentale non vogliono essere ascoltati poiché semplicemente non sanno cosa ciò significhi: fin dalla nascita hanno vissuto in un mondo che non li ha ascoltati ma ha posto loro troppe richieste, per poi bollarli come bambini che “non ascoltano”, che poi si traduce con “non obbediscono”. Quando questa parte in crescita della popolazione occidentale raggiungerà la massa critica si farà “ascoltare” eccome, e non farà prigionieri. Come ha scritto un trentenne suicidatosi qualche giorno fa, “Questa generazione si vendica di un furto, il furto della felicità.” Lui ha ucciso sé stesso ma non illudiamoci: un manipolo di psicopatici intelligenti ha già capito che il mondo occidentale è pieno di giovani ai limiti della psichiatria, senza sé, senza radici, senza prospettive, che hanno imparato cosa sia la vita dagli schermi delle loro PlayStation e Xbox su cui girano giochi inneggianti più o meno apertamente a condotte antisociali e violente, giovani pronti a farsi reclutare per fare stragi di… di gente. Perché non odiano qualcuno, odiano tutto, perfino sé stessi. Anzi, all’odio di sé sono stati educati proprio dal loro mondo.

    Naturalmente tutto questo non riguarda la totalità delle nuove generazioni, ma una quota in aumento, che una zona grigia a gradiente progressivo separa dai “privilegiati” rimasti esclusi dalla Grande Sperimentazione. Dunque questo abisso non soffocherà tutto e tutti, ma resteranno poche élite forse in lotta tra loro: alcuni ambiranno alla conservazione delle caratteristiche umane pre-Sperimentazione, con un anelito di rinascita, altri vorranno invece cogliere fino in fondo l’occasione di spremere il massimo dalle masse di “paria” che si sono create.

    Difficile prevedere gli eventi in un globo caotico e instabile, tuttavia credo sia facile profezia immaginare ancora altre guerre, carestie, e nuove, devastanti povertà. Poi, se i danni all’ambiente non saranno eccessivi e irreversibili, nuove generazioni di umani dovranno tornare a funzionare come la loro specie richiede, torneranno solidali e inclusivi, avranno di nuovo più paura di morire che di legarsi ad altri umani. E ricominceranno ancora una volta. Condannati a rivivere in un eterno dopoguerra.

    Per questo comincio a sentire come una perdita di tempo ogni ricerca di soluzioni parziali e dunque votate al fallimento. Suonano, tutte quante, come le millanterie da bar del “io, se fossi l’allenatore della Nazionale…” Ho, piuttosto, l’impulso a salvare persone. Profughi in ogni senso. Profughi della mente, del sé, dell’umanità. Altri, in altri luoghi, salvano profughi di guerre, disastri e migrazioni. Siamo giunti al “salvare il salvabile” in previsione di una sorta di medioevo già in atto e in espansione.

    Mi sono messo alla ricerca di parole e verbi che esprimessero in modo pulito e conciso queste idee. Ho dovuto scartare tante parole vecchie, abusate, piegate a ogni furberia e trasformismo. Medioevo è un termine frusto, usato in modo traslato per troppi scopi e non sempre nobili. Forse potremmo chiamarlo Mediaevo, l’età dei media. E ancora: conservatori, progressisti, destra, sinistra… sono ormai ciarpame rugginoso. Mi resta il preservare. L’etimo ci porta al nocciolo: custodire intatto, salvare da un male futuro. D’ora in avanti dirò che professionalmente, culturalmente e politicamente sono un preservatore.

     

    Quest’opera di Franco Nanni è stata rilasciata con licenza Creative Commons Attribuzione – Non commerciale – Condividi allo stesso modo 3.0 Italia.

  • Pagina degli articoli

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  • Fermare il declino della scuola

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  • +30% ritardi del linguaggio in 5 anni. Perché?

    “I ritardi del linguaggio sono aumentati del 30% negli ultimi cinque anni. La causa? Nessuno parla piu’ con i bambini. Per affrontarli con successo basterebbe che i genitori leggessero libri di favole, raccontassero storie e giocassero con i loro figli. Oggi invece sono i videogiochi ad avere la meglio”. È un vero e proprio Sos emergenza educativa, quello che ha lanciato  Sul notiziario minori dell’agenzia DIRE Massimo Polledri, neuropsichiatra della Asl piacentina.

    Aggiungerei un altro moltiplicatore del problema, ovvero l’inserimento troppo precoce e con orari troppo lunghi al nido.  Qui non c’è nessuna colpa della struttura-nido in sé,  ma solo il verificarsi di assai minori opportunità per il piccolo di interagire in modo paritario, espressivo e vicendevole con un adulto in tutte le ore trascorse al nido, dove gli interlocutori prevalenti sono altri bambini come lui che non possiedono ancora un linguaggio degno di essere imitato. Ovvio che quando un bambino ha trascorso 10 ore in una struttura educativa tutti i giorni, poi quando arriva a casa trova due adulti stanchi che non sanno come gestirlo per inesperienza o esaurimento, e preferiscono dargli tv o tablet per tenerlo buono…  Ci vuole un bambino davvero super dotato per acquisire in modo agevole e completo il linguaggio poiché le occasioni di apprendimento iniziano a diventare davvero scarse.

    Per questo insistiamo ancora una volta con ulteriore articolo per informare tutti genitori dell’opportunità di ritardare per quanto possibile l’inserimento al nido e limitare gli orari di frequenza allo stretto indispensabile destinando le ore al di fuori della struttura educativa a momenti di interazione singola e scambievole con adulti di riferimento.

     

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  • Degli adolescenti non si sa niente

     

     

    Il titolo di un inquietante e truce romanzo di S. Vinci, forse troppo poco considerato al tempo della sua uscita, era “Dei bambini non si sa niente”. Degli adolescenti ancor meno. Anche il poco che crediamo di sapere è vago. Sappiamo che tanti bevono, non sappiamo perché. Sappiamo che alcuni fanno sesso precoce e compulsivo, ma non sappiamo perché, o forse preferiamo non saperlo. Alcuni si suicidano, e ci affanniamo a cercare “il” motivo, forse già sapendo che non lo troveremo. Sappiamo che tantissimi non sono motivati allo studio, e qui forse con un po’ di sforzo potremmo anche sapere perché. Di fronte agli adolescenti è un pullulare di stupori e falsa coscienza. “Pensano solo ai soldi” osserviamo con sdegno. Chissà perché lo fanno… Certe ragazzine mettono fuori culi e tette e cercano di farsi strada ovunque e comunque. Che scempio, mai visto niente di simile, nella nostra onorata società. Un ragazzo ruba soldi in casa per comprarsi l’Iphone. Accidenti, come gli sarà venuto in mente? Mai sentito parlare delle nuove tecniche di marketing?
    Degli adolescenti ci preoccupiamo. Facciamo indagini su alcol, droghe, gravidanze precoci e forse poco di più. Li esploriamo come un territorio ignoto infettato da malattie esotiche. Nelle carte geografiche antiche sull’ancora inesplorata Africa pare scrivessero “hic sunt leones”, qui ci sono leoni, poiché era tutto quello che ne sapevano. Hic sunt adulescentes. Li guardiamo con preoccupazione. Per il loro presente. Per il loro futuro. Pronunciamo la parola futuro come un mantra. Si parla tanto dell’aria pulita perché c’è lo smog, e oggi anche le polveri sottili. Ma come in tutti i rituali, dopo aver recitato il mantra “fu–tu–ro”, la nostra moderna danza della pioggia, la siccità prosegue inalterata, lasciandoci in tutta la nostra impotenza.
    Allora si cercano delle soluzioni. Se ne fanno vessilli. Gli Oratori, le Parrocchie. Alcuni amministratori vi si aggrappano per resistere ai flutti delle risorse pubbliche sempre più risicate. Va benissimo, basta ammettere che gli Oratori coinvolgono soltanto una minoranza di adolescenti, non la generalità dei cittadini di quell’età, e che non può che essere così. Allora, che si fa? Nei momenti di crisi e di sbandamento, cercarsi dei nemici dona sollievo. L’autoritarismo, temibile nemico di un tempo andato, ora non fa più paura, anzi viene clandestinamente titillato citandolo senza abbracciarlo: “non sono per l’autoritarismo, ma…” È il nuovo mantra, dopo “io non sono razzista, ma…” Ora il nuovo Nemico è il Permissivismo. Vituperarlo è il Dogma, i Divieti sono le sue Opere, dire NO ai figli sono le Preghiere, e di tanto in tanto nei luoghi di educazione si possono ascoltare conferenze dove un ispirato Profeta celebra la Giornata dell’Odio contro il Permissivismo. Ci salverà? Crearsi dei nemici è la miglior soluzione per non pensare, per non sentire. Per anestetizzarsi dalla “umiliante, irritante presa di coscienza della propria impotenza. Non solo le persone comuni, […], ma anche coloro che occupano alte cariche e sono sotto i riflettori, leader ed esperti chiamati a ricoprire incarichi pubblici e a occuparsi del benessere e della sicurezza di tutti, restano attoniti e confusi […] Forse oggi, mai come in passato, l’individuo è succube del gioco delle forze di mercato, un gioco di cui non è assolutamente conscio e che tanto meno riesce a capire o prevedere, ma dovrà pagare per le sue decisioni prese (o non prese) individualmente.” (lo scriveva Z. Bauman quasi dieci anni fa).
    D’altronde il “cosiddetto” permissivismo (ma cosa sarà poi davvero?) si presta bene al ruolo di nemico, perché è indubbio, come ci riferiva mesi fa il Censis, che siamo di fronte a una “pervasiva sregolazione delle pulsioni, risultato della perdita di molti dei riferimenti normativi che fanno da guida ai comportamenti”. Ma siamo ben lontani dall’aver capito che cosa ha causato tutto questo, dovendo anche ammettere che si tratta di fenomeni complessi e trasversali che non si lasciano interpretare attraverso i consueti, rassicuranti schemi. E allora arriva il Profeta che indica la Via alle famiglie e alle scuole ricordando i bei tempi andati in cui il maestro, come il padre, era il testimone, il sacerdote della sostanziale coerenza di un mondo in cui tutto si tiene, un mondo dotato di senso, di futuro e di speranza. Il maestro, come il padre, era la mano del mondo che con amore si curvava verso di noi, bambini, per portarci nel regno della vita dove avremmo fatto cose belle, come a loro volta avevano fatto papà e mamma, che tra le cose belle avevano fatto noi, i figli. Il mondo aspettava noi, aveva bisogno di noi. Il mondo aveva un futuro e quel futuro eravamo noi. Ma è solo nostalgia: il maestro e il genitore d’oggi non sono testimoni né sacerdoti di un bel niente, perché sentono di vivere in un mondo difficile, caotico e instabile, che faticano a comprendere, della cui coerenza dubitano, come dubitano del fatto che il rispetto delle regole sia davvero un atteggiamento premiato dai fatti.

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  • Nido e Scuola Infanzia, troppo presto, troppo a lungo, troppo…

    SoffioniLa nostra società si è gradualmente abituata a considerare naturale che bambini di 6, 7, 8 mesi trascorrano 7, 8, fino a 10 ore fuori casa all’interno di una struttura “educativa”, dove la parola educativa merita necessariamente le virgolette in quanto risulta davvero incomprensibile cosa ci possa essere di educativo per un bambino di sette mesi al di fuori del contatto e dello scambio affettivo con i propri familiari. Naturalmente sembra a molti ancora più naturale che una vita del genere venga condotta dei bambini nella fascia 3-6 anni, cioè fino alla fine della scuola dell’infanzia. Della età giusta per il nido, ammesso che esista, abbiamo già parlato qui.

    A costo di apparire impopolare vorrei proporre alcune riflessioni a partire dai bisogni dei bambini, cosa della quale pochi sembrano davvero interessarsi operativamente.

    • Il bambino dalla nascita è predisposto a essere accudito da figure adulte stabili, verso le quali sviluppa attaccamento, un insieme complesso di motivazioni, emozioni e cognizioni, le cui principali manifestazioni sono la ricerca di vicinanza e la protesta per la separazione.
    • Da questo rapporto con adulti (figure di attaccamento) derivano risorse per un adeguato sviluppo affettivo, emotivo e cognitivo, che vanno dal linguaggio al senso di sé, dalla capacità di regolare le proprie emozioni e i propri impulsi all’orientamento spazio-temporale, fino alla capacità di aspettare, di conoscere e di esplorare. È dall’adulto che il bambino apprende (per contatto) i turni del parlare, la reciprocità, i confini io-tu… E infinite altre sfumature essenziali per un armonico sviluppo.
    • Il gioco con i pari età è, almeno fino ai tre anni, un gioco parallelo e affiancato, ma è solo negli anni successivi diviene cooperativo, reciproco, co-gestito, dunque autentica risorsa educativa.
    • È nel libero movimento corporeo che il bambino sviluppa il sè-corpo e le consapevolezze spaziali, quindi in un movimento protetto (ma non controllato o imposto) dall’adulto, al solo fine di evitare pericoli. La disciplina del corpo e del movimento inizia necessariamente dopo, quando possono essere utilizzate dal bambino risorse interne di autocontrollo.

    Se abbiamo ben presente tutto questo, allora diventa naturale fissare alcuni principi di base, quasi una dieta del buon vivere del bambino. E, come tutti sanno, una buona dieta deve essere varia. Tracciamone le caratteristiche ideali:

    • 0~12 mesi (o comunque fino all’inizio della capacità di camminare), a casa e all’aperto con mamma e papà; va bene il contributo non predominante di eventuali figure accessorie (parenti prossimi o baby sitter stabili). Sonno vicino a mamma. Allattamento seno esclusivo a richiesta (0~6) e auto-svezzamento (6~12) con proseguimento del seno e graduale interruzione (per chiarezza, la OMS afferma che non ci sono evidenze di effetti negativi del prendere il seno come complemento anche fino a tre anni di età).
    • 12~24 mesi, valgono le linee precedenti, ma con maggiore flessibilità, maggiore esplorazione di spazi aperti, possibile maggior apporto di figure accessorie preferibilmente stabili. (Diverse ricerche hanno dimostrato che maggiore è il numero e la variabilità di figure di riferimento nella primissima infanzia, maggiore il rischio di problemi comportamentali e emotivi in seguito). In questa fase il nido sarebbe da evitare; se proprio necessario, allora meglio assolutamente part time, cioè solo mattina e con un inserimento molto graduale e lento. Vacanze rigorosamente con i genitori.
    • 24~36 mesi, o comunque entro inizio scuola dell’infanzia: sostanzialmente restano valide le linee guida del periodo precedente, ma con maggiore apertura e tempi più tranquilli di permanenza con persone note che non siano i genitori, oppure il Nido, ma sempre comunque part time! Questa può essere la fase di consolidamento del rapporto con i nonni, se presenti. Meglio però, sotto i tre anni, evitare di far fare ai bambini vacanze lunghe (oltre 5/7 giorni) soli con i nonni. I bimbi più tranquilli e sereni possono, senza fretta, iniziare a dormire da soli.
    • Dai 3 ai 6 anni: ovviamente ha inizio per tutti la scuola dell’infanzia, ma altamente consigliabile la frequenza 8~13 approssimativamente, necessaria il primo anno. Se non è possibile sempre, va comunque limitata allo stretto necessario. Dormire da soli, la notte a casa, è un buon traguardo per questa età, ma alcuni bimbi sono ancora bisognosi di contatto; non facciamogli fretta.
    • Durante la fase 3~6 anni la “dieta” ideale comprende:
      • Mattino all’asilo
      • Pomeriggio a casa, sonnellino, e relazione con un adulto, esclusiva (1:1) o con fratelli/sorelle, massimo cuginetti, in modo che la relazione con l’adulto sia predominante rispetto a quella con i bimbi. In questo tempo è importante un buon equilibrio tra libertà motoria e esplorativa e limiti chiari e fermi dati al comportamento dei bambini.
      • Tardo pomeriggio (se non prima) ricongiungimento coi genitori fino a sera/notte.

    Per chiarezza: queste linee guida non sono state stese per colpevolizzare o accusare nessuno. Non siamo nati ieri e sappiamo tutti quanto sia difficile stare in mezzo tra le esigenze dei bambini e un mondo del lavoro sempre più rapace, intollerante, ladro di tempo e risorse emotive.

    Al contrario, queste linee guida sono state stese per aiutare chi può a crescere al meglio i propri figli, e per ricordare a tutti di non provare stupore quando al nido o all’asilo osserviamo bambini con significative mancanze nelle capacità di autoregolazione emotiva, nella turnazione del dialogo, nella relazione con l’adulto e con i pari età. Non sono i bambini a sbagliare ma semmai le circostanze in cui sono cresciuti. Dovrebbero essere un monito a riformare e riformulare la vita nella scuola dell’infanzia al fine di aiutare questi bambini squilibrati a ritrovare maggiori risorse auto regolative interne. Per farlo, non hanno bisogno di più disciplina ma di più intense relazioni costruttive con adulti significativi. Dunque per prima cosa, soltanto per cominciare e nulla più, smettiamola con sezioni da 25 bambini con una sola maestra.

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  • I bambini dell’horror vacui

    Una nuova tipologia di bambini in arrivo? No, solamente “normali”

    Se rivolgiamo l’attenzione alla scuola primaria, ma con uno sguardo attento anche sul triennio della scuola dell’infanzia, possiamo osservare che le classi si stanno gradualmente popolando di una tipologia di bambino che potremmo provvisoriamente denominare “disorganizzato” con una definizione volutamente vaga, e che, per evitare ulteriori etichettamenti, chiameremo semplicemente “D”. Voglio chiarire fin da ora che il bambino D non è affatto una nuova categoria di bambini: ne sono state già aggiunte fin troppe e i genitori in pena non fanno altro che vagare sul Web alla ricerca dell’etichetta giusta da mettere sui loro bambini difficili (e ne trovano a iosa). Quando parlo di “bambino D” mi riferisco prima di tutto a una grande varietà di individui accomunati soltanto da un nucleo comune di esperienze, di modalità di relazione e di organizzazione delle capacità e delle emozioni. Le componenti di quel nucleo comune sono anch’esse variabili tra soggetto e soggetto. Si tratta in altri termini non dell’ennesimo bambino speciale ma del genere di bambino che si sta avviando a divenire normale o medio.

    Il bambino D si caratterizza soprattutto per avere non bisogni speciali, bensì bisogni normali ma disattesi: a puro titolo di esempio, aveva bisogno di accudimento e presenza ma è stato inserito troppo precocemente in strutture educative, aveva bisogno di tempo per maturare e apprendere ma è stato sollecitato a produrre performance che non era ancora in grado di dare… Ha bisogno di spazi aperti e movimento spontaneo ma passa ore e ore al chiuso e fermo. Ha vissuto i primi anni di vita in modo disarmonico, con troppe figure di riferimento e troppi cambiamenti; prevalentemente in ambienti piccoli e chiusi, in strutture governate da adulti, tanto che le esperienze motorie spontanee ne escono massimamente sacrificate, a favore, spesso, di un uso/abuso di mezzi tecnologici che partono dalla semplice televisione per arrivare al tablet e alla consolle per videogiochi. Il bambino D è un bambino sovrastimolato, per di più in modo assai sbilanciato, con eccessi e carenze in aree diverse, ovvero, tipicamente: troppi stimoli verbali e cognitivi, pochi o troppo settoriali quelli relazionali e corporei, disfunzionali quelli specifici dell’attaccamento.

    Volendo rappresentare il tutto con un esempio ricavato dall’alimentazione, potremmo dire che il corpo umano estrae i nutrienti di cui abbisogna da tutti gli alimenti che vengono introdotti, ed è il corpo stesso a selezionare di volta in volta quello che gli serve. Se la dieta è sufficientemente variata possiamo dire che vengono soddisfatti complessivamente tutti i bisogni nutritivi, ma se essa diviene troppo ristretta, sbilanciata o scarsa, il corpo non trova più tutto il necessario e possono crearsi disfunzioni, patologie o altri disturbi. Fuor di metafora, la dieta di esperienze relazionali, corporee e emotive di un bambino medio di oggi è contraddistinta da squilibri e disarmonie con significative carenze e eccessi tali per cui la costruzione progressiva e intrecciata delle varie intelligenze e delle funzioni esecutive può mancare di parti rilevanti. Quando poc’anzi ho affermato che questa tipologia di bambini ha bisogni normali ma disattesi mi riferisco proprio al fatto che le condizioni in cui essi si sviluppano rischiano di essere, e talvolta sono troppo lontane dalle aspettative di cui il sistema nervoso umano è portatore. La grande flessibilità che ci contraddistingue ha portato a considerare infinite o quasi le possibilità di adattamento del bambino al suo ambiente di crescita, ma ciò non corrisponde al vero: per quanto flessibili, le capacità di adattamento dei nostri cuccioli hanno dimensioni finite. Esiste quindi una normalità bioevolutiva entro la quale si collocano i bisogni normali ma disattesi dei bambini D. Quando ci si allontana troppo da essa si verificano carenze e disarmonie, il cui risultato più tipico è un bambino intelligente (nella norma o sopra), effervescente e curioso, ma disorganizzato, assai carente nelle capacità di contenere gli impulsi, di dirigere le proprie azioni, di esser contenuto dalla parola dell’adulto. Un bambino che non è portatore di alcuna patologia propriamente detta, ma che è “antropologicamente” inadatto alla vita scolastica tradizionalmente intesa, a causa dei suoi tempi di attenzione brevi, della sua ricerca continua di stimoli, della sua intolleranza all’attesa e al vuoto, del suo spasmodico bisogno di attenzione esclusiva da parte dell’adulto, nella aurorale consapevolezza che non può svilupparsi in modo congruo senza di essa. Egli sconta in qualche modo la sua propria disorganizzazione nelle varie aree:

    • Disorganizzazione motoria, per aver vissuto troppo a lungo sballottato da un ambiente chiuso all’altro, in automobile, in passeggino, senza poter esplorare l’ambiente fisico con il proprio corpo. Al massimo, egli riceverà un addestramento formale in uno specifico sport dove potrà perfino eccellere sotto lo sguardo fiero di mamma e papà, ma continuerà a conoscere il proprio corpo non come fenomeno vitale emergente, ma soltanto come strumento.

    • Disorganizzazione affettiva, per aver subìto distacchi troppo precoci e lunghi dalle figure di attaccamento. Non riesce a fidarsi davvero dell’adulto, non riesce a costruire un rapporto significativo con esso al di fuori della famiglia e spesso anche all’interno di essa. Vive una incolmabile ansia per la separazione, piange a lungo al distacco entrando a scuola o rifiuta di entrare. Cerca disperatamente il contatto con l’adulto al momento del dormire. Oppure abbandona la speranza dell’attaccamento e vive in una dimensione di superficie e di evitamento del legame, diventando un iperattivo “amico di tutti” e dunque in fin dei conti di nessuno.

    • Disorganizzazione attentiva, per carenza di tutte quelle esperienze stratificate che portano a maturazione i circuiti neurali preposti all’attenzione (scambi affettivi con la madre, scambi verbali, ostensione e presentazione degli oggetti da parte dell’adulto, relazioni significative e orientate da una figura-guida, esperienze motorie spontanee, gioco libero… E tanto altro). Essi sono quasi sempre squilibrati nel focus dell’attenzione: completamente assorbiti da sé stessi e da stimoli interocettivi e egosintonici, o viceversa iper-vigili verso l’ambiente in modo non selettivo (con conseguente alta distraibilità). Per molti bambini D l’unico stimolo in grado di orientare e focalizzare a lungo l’attenzione è costituito da quei potentissimi dispositivi elettronici (con relativi raffinatissimi software) chiamati videogiochi. Attaccati alla consolle (Playstation, Xbox, ecc.) o al tablet, certi bambini possono erogare livelli di attenzione sostenuta impensabili in altri contesti.

    • Disorganizzazione delle autonomie, per aver vissuto una miscela sbilanciata di iper protezione e spinte anticipate al far da sé, miscela spesso ritagliata esclusivamente sui bisogni concreti e affettivi del genitore.

    • Disorganizzazione del rapporto emotivo e cognitivo con sé stessi. Questi bambini operativamente “non sanno chi sono”. Le precedenti forme di disorganizzazione, sommate insieme, generano un individuo incapace di “esserci”. Il suo corpo è rimasto due volte svuotato, dapprima del contatto pelle a pelle prolungato e rassicurante, in seguito della sana esperienza spontanea dell’esplorazione motoria. Ne risultano appetiti variamente insaziabili in uno o in entrambi i campi. Abitano corpi vuoti e sconosciuti, questi bambini dell’horror vacui, continuamente affamati di stimoli esterni che non sanno interiorizzare né far durare. Il disconoscimento del corpo, affettivo cognitivo e percettivo, porta spesso a fenomeni crescenti dello spettro ansioso e ipocondriaco.

    Immaginare classi formate solo da bambini disorganizzati oltre che spaventoso è anche fuorviante: prima di tutto perché le caratteristiche di disorganizzazione descritte possono variare molto per intensità e per dosaggio complessivo, creando situazioni personali sfumate, mutevoli e in definitiva uniche. In secondo luogo queste caratteristiche si vanno a sommare algebricamente ad altre variabili personali, che spostano gli equilibri individuali sia in direzione della resilienza e della adeguatezza che in direzione opposta, verso anomalie importanti fino alla patologia, o a quella pseudo-patologia sovradiagnosticata denominata ADHD (Disturbo da Deficit di Attenzione e Iperattività). Si tratta in realtà di una mera sindrome, o ancor meglio di un aggregato variabile di sintomi dalla eziologia vaga, molteplice e confusa, come ammise candidamente lo stesso psichiatra Leon Eisenberg, che per primo quaranta anni fa codificò l’ADHD, in una sua intervista al settimanale tedesco Spiegel: “L’ADHD è il primo esempio di malattia fittizia” e ancora: “La predisposizione genetica per l’ADHD è completamente sopravvalutata”.

    Nella mia esperienza concreta di psicologo nella scuola credo di poter affermare che il bambino fortemente disorganizzato è ancora largamente minoritario: potremmo approssimarlo grossolanamente a meno di un individuo ogni venti, dunque al di sotto del 5o centile. Se spostiamo invece l’attenzione verso bambini variamente disorganizzati, che presentano solo alcuni tratti o anche tutti ma in grado lieve, allora le proporzioni cambiano e arrivo a immaginare che questa tipologia di alunno non solo rientri già assolutamente nella norma, ma che gradualmente finisca con l’occupare la zona centrale e maggioritaria.

    by-nc-saQuest’opera di Franco Nanni è stata rilasciata con licenza Creative Commons Attribuzione – Non commerciale – Condividi allo stesso modo 3.0 Italia.

  • Accogliere o medicalizzare le differenze?

    Analisi e proposte per fermare il declino della scuola

    Franco Nanni

    La scuola si confronta, oggi più che mai, con le differenze tra i discenti che ospita sui propri banchi: per farlo dovrebbe trovare una modalità pedagogica in grado di integrare e compensare le differenze intergenerazionali, e insieme dovrebbe trasformarsi assieme alle mutazioni transgenerazionali. È ovvio che un piccolo di Homo sapiens è geneticamente assimilabile a qualunque altro, ma è altrettanto ovvio che le esperienze di accudimento, di attaccamento, di esplorazione motoria e cognitiva, di apprendimenti formali e informali costituiscono un insieme di fattori che possono modificare sostanzialmente il modo di essere di un bambino. Temo però che questa fondamentale istituzione del nostro Paese stia piuttosto soccombendo alle differenze, e che la sua capacità di accoglierle e integrarle sia al collasso. Cercherò di spiegarne i motivi, e di formulare idee di mutamento che possano arrestare un declino già non più in fase iniziale.

    1

    L’apparato normativo che disciplina l’erogazione del cosiddetto sostegno scolastico non è più all’altezza della situazione attuale. Nato dapprima con la legge 517/77 e re-inquadrato poi con la legge 104, era destinato in origine agli alunni con importanti disabilità di natura fisica e/o psichica. Nel tempo tuttavia l’insegnante di sostegno è divenuta uno strumento fondamentale di completamento delle risorse umane impiegate nella scuola non solo per gli alunni con gravi disabilità ma per un numero vasto di bambini con lievi e diffuse problematiche emotive e cognitive che comunque necessitano di una attenzione particolare. Sennonché a questo punto si è verificato un secondo insieme di fatti apparentemente mirato a ritrovare lo spirito e la lettera della legge originaria: nel 2008 nuovi criteri di presa in carico per l’integrazione scolastica in direzione di una più severa disciplina, successivamente la legge 170 (dislessia e altri Disturbi Specifici dell’Apprendimento) e infine diverse direttive ministeriali sui cosiddetti BES (Bisogni Educativi Speciali).

    La vera mira di questa trasformazione normativa appare chiara se osserviamo che, a differenza del sostegno scolastico che alloca risorse umane a disposizione di alunni in difficoltà e delle loro classi, tutte le nuove norme di supporto ad alunni con bisogni speciali sono accomunate da una ferrea regola: risorse umane aggiuntive a disposizione = zero.

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    Se rivolgiamo l’attenzione alla scuola primaria, ma con un occhio vigile anche sul triennio della scuola dell’infanzia, possiamo osservare che le classi si stanno gradualmente popolando di una tipologia di bambino che potremmo chiamare “disorganizzato”: si caratterizza soprattutto per avere non bisogni speciali, bensì bisogni normali ma disattesi: a titolo di esempio, aveva bisogno di accudimento e presenza ma è stato inserito troppo precocemente in strutture educative, subendo distacchi troppo precoci e lunghi dalle figure di attaccamento. Spesso non riesce a fidarsi davvero dell’adulto, non riesce a costruire un rapporto significativo con esso al di fuori della famiglia e spesso anche all’interno di essa.

    Il risultato più tipico di questa serie di disarmonie di sviluppo è un bambino intelligente, effervescente e curioso, ma, appunto, disorganizzato, assai carente nelle capacità di contenere gli impulsi, di dirigere le proprie azioni, di esser contenuto dalla parola dell’adulto. Un bambino che non è portatore di alcuna patologia propriamente detta, ma che è “antropologicamente” inadatto alla vita scolastica tradizionalmente intesa, a causa dei suoi tempi di attenzione brevi, della sua ricerca continua di stimoli, della sua intolleranza all’attesa e al vuoto, del suo spasmodico bisogno di attenzione esclusiva da parte dell’adulto, nella aurorale consapevolezza che non può svilupparsi in modo congruo senza di essa. È un individuo incapace di “esserci”, privato dapprima del contatto pelle a pelle prolungato e rassicurante, in seguito della sana esperienza spontanea dell’esplorazione motoria. Sono i bambini dell’horror vacui, continuamente affamati di stimoli esterni che non sanno interiorizzare né far durare. Il disconoscimento del corpo, affettivo cognitivo e percettivo, porta spesso a fenomeni crescenti dello spettro ansioso e ipocondriaco.

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    I genitori dei bambini disorganizzati sono essenzialmente cittadini normali del nostro mondo: vita quotidiana frenetica, senso di urgenza costante o assai frequente, molte incertezze sul proprio ruolo genitoriale, bisogni affettivi propri non del tutto soddisfatti nel passato e/o nel presente. Di fronte alla scuola e alle sue denunce difendono i propri bambini non tanto per convinzione ma per identificazione con essi, e insieme per senso di inadeguatezza, sospesi come sono tra il bisogno compensatorio dei propri irrisolti grumi affettivi e il dogma dei “No che aiutano a crescere”.

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    Le maestre (e i pochi maestri) che operano a contatto con questi bambini possono essere anagraficamente più o meno vicini ai loro genitori. Talvolta apparentemente contrapposti, condividono in realtà molti principi, almeno in astratto: prima di tutto il rispetto delle regole, vera ossessione collettiva del nostro tempo, anche se poi i genitori tendono a pensare che questo rispetto debba essere imposto e insegnato da altri: docenti, catechisti, allenatori sportivi… Ma non da loro stessi. Portare i bambini disorganizzati al rispetto delle regole è impresa ardua, avara di soddisfazioni e altamente stressante. Dopotutto anche le maestre ambirebbero a trovarsi in classe bambini già ben capaci di rispettare le regole per merito dell’opera di genitori solerti che confezionano individui equilibrati, organizzati e soprattutto docili… Perché in fondo è la docilità che si cerca, sia pur riverniciata con la nobile frase rispetto delle regole.

    Arrivati fin qui è doveroso aprire un discorso sulle condizioni di lavoro del corpo docente della scuola primaria e anche di quello dell’infanzia. Non può essere trascurato il dato di fatto che la scuola italiana subisce da decenni tagli progressivi alle risorse, talvolta graduali, talvolta netti e bruschi come i “dieci miliardi di tagli al bilancio di scuola e università tra il 2008 e il 2012.” (R. Ciccarelli su Il Manifesto del 26/3/2013). Le maestre si trovano sempre di più a operare da sole in classi numerose e sempre più popolate di bambini disorganizzati; si tratta di una condizione che genera stress, logorio, rabbia e senso di solitudine, sentimenti tutt’altro che ideali per un proficuo lavoro a contatto coi bambini, che abbassano fortemente la capacità di accogliere e contenere, una capacità cruciale per la funzione docente e educativa.

    Alle volte l’insegnante sotto stress devia la propria irritazione lontano dal bambino per dirigerla tuttavia sui suoi genitori. Si comincia con quotidiani racconti delle malefatte del bambino, buttati addosso al genitore al momento dell’uscita, e quasi sempre mentre il bambino stesso ascolta! Il tono allarmato e la ripetitività della cosa sortiscono effetti vari su papà e mamme, ma il più tipico è la sensazione che vi sia, nel comportamento della maestra, una implicita, perfino ovvia richiesta di “fare qualcosa”, il che significa per la maggior parte delle persone punire il bambino.

    Il “fare qualcosa” del genitore raramente fa migliorare le cose in modo percepibile a scuola, e la situazione entra in stallo. È di solito a questo punto che l’insegnante cala l’asso di briscola: introduce l’idea che il bambino sia “da certificare”, suggerisce di rivolgersi  alla neuropsichiatria ASL. Ci sono naturalmente situazioni che meritano questo genere di iniziativa, ci mancherebbe, tuttavia negli ultimi due/tre anni sono davvero troppe le segnalazioni che, prese in parola dalla famiglia, portano a una valutazione da parte della ASL che non sfocia affatto in una certificazione ex L.104, a volte per la obiettiva assenza di patologie nel bambino, oppure in altri casi per il fatto che quelle eventualmente riscontrate non rientrano nelle nuove, ristrettissime tabelle di ammissibilità.

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    Occorre a questo punto affrontare un altro aspetto conflittuale originato dal combinato delle condizioni di lavoro del corpo docente e della crescente presenza di bambini disorganizzati nella scuola. Si tratta del conflitto latente, ma che monta da qualche anno, tra docenti e professionisti di ambito psicologico a proposito delle valutazioni. “Questo bambino ha qualcosa”, pensa la maestra osservando il suo difficile funzionamento in classe. “Il bambino è nella norma” scrive solerte il neuropsichiatra (pubblico o privato). L’assunto della prima è empirico ma tremendamente generico: siccome in classe non funziona, deve avere qualcosa. L’assunto del secondo è parimenti empirico ma specifico e statistico: ho somministrato i test X, Y e Z e i punteggi ottenuti risultano nella norma, che qui indica una normalità statistica; essa non implica una normalità prescrittiva di adeguatezza rispetto alle richieste comportamentali (e non solo) in ambito scolastico! Inoltre la normalità statistica non implica nemmeno un criterio di “salute” . Dovremmo ricordarci di un alto genere di normalità, quella bio-evolutiva che utilizza i parametri del corpo-mente umano come risultato dell’evoluzione.

    6

    Il problema è diverso e risiede nel contesto più che nell’alunno: il bambino statisticamente normale di oggi vive in una scuola pensata per i bambini statisticamente normali di ieri. Inoltre la scuola di ieri era stata progressivamente dotata della possibilità relativamente agevole di ottenere risorse di sostegno per tanti bambini che in assenza di ciò sarebbero stati a disagio o nell’impossibilità di integrarsi e di apprendere adeguatamente, pur senza essere portatori di specifiche patologie. Di tutta questa dotazione oggi si è fatto strame, perché la scuola di oggi non è più pensata per alcun genere di normalità statistica dei bambini ma soltanto per una adeguatezza finanziaria a criteri di risparmio e di astratta qualità decisi in qualche sede nazionale o europea. Naturalmente a spese dei più deboli.

    7

    Tornando alla questione principale, ovvero la solitudine e la fatica delle maestre lasciate sole con classi numerose e popolate di bambini variamente disorganizzati, con le conseguenti richieste   più o meno improprie di “certificazione”, si delinea all’orizzonte un novello “comma 22”: «chi è patologico può richiedere il sostegno scolastico, ma chi richiede il sostegno scolastico non è patologico». Da un lato sembra quasi che ottenere un insegnante di sostegno per alcune ore la settimana sia equiparato alla assegnazione di una pensione di invalidità, che occorre in qualche modo “meritarsi” con una bella patologia da esibire. Sul versante delle docenti una “certificazione” ex L.104 è l’unico modo di avere risorse umane aggiuntive in classe. Ciò costituisce di per sé un fattore incentivante alla crescente medicalizzazione delle differenze che è in atto nella scuola non certo da ieri, ma che sta galoppando a grandi passi. Il paradosso è che con i nuovi criteri del 2008 si può medicalizzare finché si vuole, ma la strada resta sbarrata, e quindi il risultato positivo che queste richieste improprie di certificazione perseguono (risorse umane aggiuntive) non può essere raggiunto. Questo non significa però che tale prassi sia priva di effetti: si abbassano progressivamente i livelli di tolleranza, accoglienza e contenimento per quel bambino per lasciare il posto a un sostanziale disimpegno morale e de-responsabilizzazione verso la qualità dell’intervento educativo, quando non addirittura a logiche espulsive. Si presenta inoltre il rischio che, alla ricerca di un qualche ombrello protettivo verso bambini ritenuti difficili, si percorrano altri canali a risorse zero che si spera siano più facilmente percorribili. Ne sono gli esempi più tipici la sovraesposizione diagnostica verso i DSA e il ricorso indiscriminato all’inquadramento negli alunni con BES. Come poc’anzi detto, anche le diagnosi di ADHD hanno un ruolo non piccolo, ma esse sfociano per lo più in un nulla di fatto (non sono quasi mai abbastanza gravi da soddisfare i limiti assai restrittivi per il sostegno) o, peggio, nel ricorso a farmaci stimolanti come il Ritalin.

    8 Che fare ? Cambiare la scuola per fermare il suo declino

    8.1

    Prima di tutto occorre ristabilire un principio di fondo che rischia di essere completamente disatteso: l’integrazione delle differenze sia come prassi sia come allocazione di risorse umane aggiuntive non risponde a principi medici psichiatrici ma essenzialmente a principi pedagogici. Chiedersi quante insegnanti compresenti sono necessarie per svolgere un buon lavoro in una classe è una domanda pedagogica che richiede una risposta pedagogica, non medica o psichiatrica. Allo stesso modo, chiedersi qual è la miglior mediazione didattica possibile per favorire l’apprendimento della matematica di un particolare bambino o classe di bambini è  anch’essa una domanda pedagogica, non medica e non psichiatrica.

    8.2

    Occorre che la scuola si doti di un repertorio di buone prassi pedagogiche per l’integrazione delle differenze e la buona mediazione didattica. Questo repertorio potrebbe essere organizzato anche su una piattaforma digitale con una logica collaborativa di tipo Wiki che coinvolga l’intelligenza collettiva di tutti coloro che, da docenti e dirigenti, vogliono contribuire alla costruzione di questo repertorio.

    8.3

    Di fronte alle crescenti diversità e difformità che caratterizzano la popolazione scolastica attuale, si deve mettere in opera un altro cambiamento che si sta rivelando cruciale per la salvezza della scuola come istituzione autorevole: considerare con l’occhio della normalità bioevolutiva la quantità e la qualità di richieste comportamentali e cognitive indirizzate ai bambini che siedono a scuola oggi, comparandole anche con il sistema complessivo di vita che li circonda e li coinvolge.

    8.4

    La scuola dovrebbe contrastare con ogni sua forza migliore il diffondersi di insegnanti-diagnoste che appongono etichette psichiatriche a tutto andare e talvolta addirittura stilano su fogli di carta liste di test da effettuare a determinati alunni, test che spesso, se effettuati, risultano poi pienamente normali. Ogni volta che l’insegnante dice “questo bambino ha qualcosa” (intendendo una qualche patologia cognitiva o emotiva) è come se la docente stesse dicendo “questo bambino non mi riguarda”.

    8.5

    Infine, riprendendo il principio iniziale, occorre capovolgere l’assetto normativo di oggi su un punto cardine: la decisione di incrementare le risorse umane a disposizione di una classe e/o di singoli alunni e/o di prevedere strumenti compensativi/dispensativi è, come si è detto, una scelta pedagogica e non medica, che quindi appartiene alla scuola e non può essere condizionata in alcun modo dalla presenza di diagnosi esterne o attestazioni di invalidità. Essa dipende da considerazioni interne al lavoro e alla specificità scolastica, e può derivare da aspetti rilevati nel singolo alunno ma anche da caratteristiche particolari di un certo gruppo-classe.

    Ritengo che in assenza di un serio mutamento nelle direzioni sopra indicate, la scuola italiana sia destinata a un inesorabile declino, peraltro già iniziato da tempo.
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